Il dibattito innescato dalla recente inchiesta di Report, condotta dal giornalista Giorgio Mottola, ha fornito le prove di un sistema che da anni influenza impunemente le vicende politiche dei Paesi occidentali, compresi i risultati elettorali. Un complicato apparato che ha permesso la divulgazione sui social network di notizie false, divisive, razziste e omofobe, funzionali a rafforzare i partiti di destra e di estrema destra in Europa e negli Stati uniti.
L’inchiesta di Mottola ha approfondito i risvolti che il Russiagate ha avuto e continua ad avere in Italia. Il sistema che ha permesso alla Russia di interferire con le elezioni statunitensi del 2016 è stato favorito anche dalle falle presenti nei social network. Le responsabilità in materia sono state evidenziate dalla deputata democratica Alexandria-Ocasio Cortez che, in occasione della recente audizione di Mark Zuckerberg dinanzi alla Commissione servizi finanziari del Congresso, lo ha incalzato su quanto sia facile ingannare gli algoritmi di Facebook, diffondere fake news e sulla discutibile decisone presa dai vertici del colosso californiano di non rimuovere i post dei politici che sostengono il falso.
Quello che adesso sappiamo grazie all’inchiesta di Report è che gli stessi promotori di questo sistema, che ha danneggiato la politica nordamericana, hanno investito anche nel nostro Paese. Se il mondo si è fatto trovare impreparato sull’influenza che le campagne propagandistiche condotte da account ufficiali e non ufficiali hanno sulle nostre vicende politiche è perché per anni si è sottovalutato il potente impatto mediatico dei social network e del linguaggio che hanno creato.
L’attivista politico americano di estrema destra, Charles Johnson, coinvolto nell’efficace campagna elettorale che ha portato al potere Donald Trump, nel 2017 ha dichiarato: “Se stessi cercando di vincere un’elezione e dovessi scegliere tra spendere un milione di dollari in inserzioni politiche o spenderne 100mila in troll, consiglierei a tutti di spenderne 100mila in troll“.
Tutti noi, almeno una volta, su internet abbiamo riso o ci siamo arrabbiati guardando un “meme” molto spesso diffuso da un “troll”, due parole ormai entrate pienamente anche nel dibattito politico italiano e nel mondo della satira, ma di cui ancora non tutti conoscono l’esatto significato. Probabilmente molti ne sottovalutano anche il potere mediatico. Nel gergo di internet, per troll si intende un utente, solitamente anonimo, “che interviene all’interno di una comunità virtuale in modo provocatorio, offensivo, o insensato, al solo scopo di disturbare le normali interazioni tra gli utenti”. Il concetto di meme, invece, nella sua accezione più ampia, è in circolazione da decenni. Il termine fu coniato per la prima volta nel 1976 dal biologo evoluzionista Richard Dawkins che, nel libro intitolato The selfish gene, definì un meme come “un’unità di trasmissione culturale o unità di imitazione”. Oggi per meme intendiamo comunemente video o immagini virali, perlopiù divertenti, a contenuto politico e non.
Il quotidiano The New York Times, che è solito analizzare con molta attenzione l’uso del lessico tipico dei social network all’interno della comunicazione politica statunitense, nel 2018 ha pubblicato un articolo dal titolo “The Mainstreaming of political meme online” in cui si approfondisce, anche grazie al punto di vista del coordinatore della campagna elettorale del Presidente Trump Matt Braynard, l’impatto tutt’altro che irrilevante che i meme politici hanno nell’influenzare l’opinione pubblica, e quindi il voto. È di dominio pubblico, e ha creato eccezionale scalpore, l’indagine sul Russiagate, con cui il procuratore Robert Mueller ha provato che la Russia ha interferito con le elezioni americane del 2016 tramite la creazione di finti account Facebook e Twitter, funzionali alla diffusione di notizie false o mistificate con cui influenzare le scelte degli elettori. Il fattore passato un po’ più inosservato è quello relativo alla natura di questi messaggi subliminali, che fanno appello alle emozioni più basse degli utenti, usano parole chiare e semplici, sono di immediata comprensione e sono progettati per confondersi tra tutti gli altri meme che circolano su internet.
Jay Van Bavel professore associato di psicologia alla New York University, in un’intervista ha affermato di essere rimasto sorpreso dal grado di manipolazione utilizzato nell’operazione: “Non si tratta solo di notizie false che si possono confutare attraverso il fact-checking. Qui si è trattato di mettere gli americani l’uno contro l’altro”. Van Bavel, assieme a un gruppo di ricerca della sua università, ha studiato i meccanismi alla base dei contenuti di natura politica virali sui social network e ha elaborato una teoria da lui denominata “contagio morale”: “nel nostro studio, dimostriamo che le emozioni morali sono la chiave per propagare sui social network idee dal contenuto politico più rapidamente e con maggiore ampiezza”, scrive il professore, “i nostri studi hanno dimostrato l’importanza delle emozioni nella diffusione sui social delle idee morali […] e come le persone sono esposte alle idee politico-morali attraverso l’uso dei social network”.
Che piaccia o meno, i meme riescono sempre più spesso a condizionare il dibattito pubblico in tutto il mondo: la scrittrice statunitense Doyle Canning è l’autrice di un libro che tratta proprio di questo argomento, dal titolo molto significativo: Re: Imagining Change: How to Use Story-Based Strategy to Win Campaigns, Build Movements, and Change the World. Canning nel testo spiega che il successo dei meme è dovuto alla loro capacità di semplificare i messaggi, creando un’iconografia potentissima e riuscendo a coinvolgere in questo modo anche tutta quella parte di popolazione che prima non si sarebbe interessata alla politica. Sono in sostanza veri e propri strumenti di propaganda.
Anche in Italia due tra i più grandi partiti del nostro agone politico, Lega e M5S, devono il successo ottenuto negli ultimi anni anche all’utilizzo di questi strumenti, la cui semplicità permette di diffondere affermazioni – anche infondate – dal forte impatto mediatico. Le recenti elezioni regionali in Umbria, che hanno visto il trionfo della coalizione di destra guidata dal partito di Matteo Salvini, hanno fornito uno scenario che conferma che la politica di oggi ottiene consenso alle urne se prima di tutto ce l’ha su internet.
Non può passare inosservato che solo la pagina Facebook di Matteo Salvini, dall’inizio dell’anno, ha investito più di 140.000 euro in sponsorizzazioni inserendo come target di pubblico anche i minorenni tra i 13 e i 17 anni o che la campagna “parlateci di Bibbiano” è stata viralizzata dalle pagine legate a Lega e M5s grazie alle condivisioni di migliaia di account anomali, come rivelato nel servizio di Report. Una regola imparata con solerzia anche da Giorgia Meloni, capo politico di Fratelli d’Italia, il cui successo nelle urne elettorali è cresciuto di pari passo con la sua rapida ascesa sui social network.
Anche il Pd ha speso una cifra consistente per sponsorizzare la sua campagna elettorale sui social network (110mila euro), ma – come capitò alla senatrice Hillary Clinton e al senatore Bernie Sanders nel 2016 – lo ha fatto tardi e male, senza riuscire a creare quel senso di comunità che unisce gli elettori di Salvini al loro leader.
Escludendo i comportamenti illeciti e quindi perseguibili per legge, non giova demonizzare il nuovo linguaggio che si è creato con l’avvento dei social network, compresi i meme. Negli Stati Uniti e in Inghilterra gli esperti del settore si stanno interrogando sulle potenzialità e le patologie della diffusione dei meme, che sono a tutti gli effetti un fenomeno mediatico. I ricercatori studiano questo nuovo linguaggio anche per comprendere le esigenze degli elettori che ne fanno uso e che, attraverso di essi, formano le loro idee politiche. In Italia, invece, il fenomeno o è del tutto ignorato, oppure sottovalutato.
Molti intellettuali e buona parte degli esponenti progressisti del Paese, infatti, lo relegano allo status di moda passeggera, volgare, culturalmente inferiore. Il punto è che si sbagliano. Oggi, come ha scritto la professoressa di comunicazione all’Università di Syracuse, Jennifer Grygiel, “La democrazia dipende sempre più dagli elettori che si impegnano sui social media. Se l’obiettivo è quello di costruire un movimento che sia efficace nell’opporsi agli attacchi agli ideali democratici e alla libertà di stampa, la sinistra non può essere troppo orgogliosa quando si parla di meme”.
Possiamo rammaricarci del fatto che il dibattito pubblico non abbia l’articolazione e la profondità che lo contraddistingueva in passato, ma la nostalgia per il tempo che fu non aiuterà i progressisti a ricostruire un dialogo con un elettorato che evidentemente non conoscono e di cui, circostanza ancora più grave, non comprendono il linguaggio. I meme sono un mezzo nato nei meandri più nascosti di internet, e ora entrato a pieno titolo nella cultura pop, che permette di parlare ad una grande platea di persone, soprattutto giovani.
Come ogni mezzo però può essere usato in modo giusto o sbagliato. Il modo sbagliato è quello che veicola informazioni infondate, che fomenta le paure più ataviche delle persone inducendole a provare sentimenti come l’odio e la rabbia. Un modo corretto di usare i meme potrebbe essere invece quello di dare brevi informazioni, verificate, e così indurre il pubblico ad approfondire un particolare tema, creando in questo modo anche una comunità, come sta facendo la giovane deputata democratica Alexandria Ocasio-Cortez negli Stati Uniti. La retorica, i simboli e le storie sono strumenti per creare suggestioni, ma queste suggestioni vanno anche canalizzate ed è lì che entra in gioco la buona o la cattiva politica.