No Meloni, combattere per i propri diritti civili o per imporre una dittatura non è la stessa cosa - THE VISION

L’assalto a Capitol Hill ha inevitabilmente lasciato strascichi in tutto il mondo. Le reazioni sono state, quasi all’unanimità, un coro di condanna contro le violenze di Washington, con il Congresso sotto attacco e quindi la stessa democrazia in pericolo. In Italia, i pareri più attesi erano quelli di Matteo Salvini e di Giorgia Meloni, trumpiani della prima ora e portabandiera nostrani di quel nazionalismo tipico di gran parte delle destre di tutto il mondo. Se il leader leghista, come al solito, ha cercato di capire dove andasse il vento e quindi il giorno degli eventi non ha scritto nulla su Facebook – solo un commentino preconfezionato su Twitter – per poi fare l’ondivago nei giorni successivi (abbasso la violenza, Trump non è il nostro Messia, ma intanto mi iscrivo sulla piattaforma sovranista Parler), Meloni si è esposta maggiormente. Come previsto, ha dato prova ancora una volta del concetto distorto di democrazia in cui crede, mettendo in luce le varie contraddizioni che caratterizzano la sua azione politica.

 Il suo primo commento – pubblicato su Facebook la sera del 6 gennaio – riassume il significato stesso di mistificazione: “Mi auguro che le violenze cessino subito come chiesto dal Presidente Trump”. Viene quasi da ridere, considerando che è stato lo stesso Trump ad aizzare la folla e a causare i disordini, e che è stato costretto a invitare alla calma dopo i ripetuti moniti di Biden e delle principali istituzioni statunitensi. Lui l’ha fatto in modo soft, trattando con i guanti gli eversivi e continuando a delirare su brogli e presidenti illegittimi. Dal messaggio di Meloni si evince invece l’esatto opposto, come se Trump rappresentasse l’argine ai facinorosi e non la miccia che ha fatto esplodere la rivolta.

I sostenitori di Trump irrompono il Campidoglio, Washington DC, 06 gennaio 2021

Resasi conto di aver scritto delle frasi discutibili, Meloni ha deciso di pubblicare tre giorni dopo una lettera indirizzata al Corriere della Sera nella quale spiegava il suo punto di vista sulle vicende di Washington e su tutto quello che ne è seguito. Un’appendice di cui non si sentiva il bisogno, soprattutto perché la lettera appare ancora più aberrante della sua reazione iniziale sui social ed è il manifesto di una politica che già sul nascere si pone dal lato sbagliato della Storia.

Il testo si divide in sei punti. Il primo si può riassumere con una parola: benaltrismo. In pratica Meloni condanna la violenza, ma fa un parallelismo sconfortante con il movimento Black Lives Matters. “Davvero sono sfuggite le recenti immagini delle devastazioni prodotte dai Black Lives Matter? Non c’è una violenza giusta e una sbagliata, come una sinistra disperata ormai teorizza”. Se Meloni non riesce a capire la differenza tra le proteste – anche violente, senza dubbio – di chi combatte per i propri diritti civili in una società dove vengono continuamente violati e un attacco alle istituzioni per sostenere un mitomane che non è in grado di accettare una sconfitta, allora ha qualche problema di interpretazione della realtà, cosa che per un politico non è il massimo.

La rabbia nata in seguito all’omicidio di George Floyd è stata un moto di rivendicazione in cui intere comunità si sono unite per far sentire la loro voce, sistematicamente inascoltata. La violenza è sì sempre condannabile, ma non riuscire a fare un distinguo e capire quando è fine a se stessa e si poggia sull’odio e l’intolleranza rispetto a quando rappresenta una ribellione proprio contro quello stesso odio, non è altro che una manifestazione di un pensiero ottuso, chiuso ermeticamente nei preconcetti di chi non recepisce il grido di chi emarginato lo è davvero, e non perché si convince di esserlo cadendo in assurde teorie complottiste.

Meloni poi tenta di giustificare il suo primo commento su Facebook: “Ho scritto che le violenze dovevano cessare ‘come chiesto dal Presidente Trump’ perché quando ho pubblicato il post Trump e altri del suo staff avevano già chiesto ai manifestanti di tornare a casa in pace”. Anche qui, pare esserci un problema di interpretazione dei fatti o un tentativo di modellarne la narrazione in base alle convenienze di propaganda. Alla luce del comizio tenuto poco prima da Trump – dalla violenza verbale inaudita, in cui esortava a non accettare il risultato elettorale e a non arrendersi – il successivo messaggio del tycoon suonava più come un “ragazzi, avete fatto il vostro dovere, tornate a casa”. 

In realtà, però, Meloni non sta commentando delle vicende straniere con la distanza di chi si limita a osservare quelle dinamiche: c’è infatti un filo che lega Fratelli d’Italia a Steve Bannon, amministratore della campagna elettorale del 2016 di Trump e capo stratega del Presidente alla Casa Bianca, arrestato qualche mese fa per frode fiscale e riciclaggio di denaro. Bannon è stato ospite di Atreju, festa del partito di Meloni, e rappresenta la mente che ha mosso i fili del sovranismo mondiale. Quindi Meloni non è una disinteressata, le sue parole sono quelle di chi è all’interno di una fazione che negli ultimi anni ha preso il potere in gran parte del mondo. E proprio per questo certe esternazioni dovrebbero metterci in guardia.

Steve Bannon

Il terzo punto è l’elogio alla mediocrità nella conoscenza costituzionale. Parlando dei risultati elettorali negli Stati Uniti, Meloni spiega che la volontà popolare va rispettata, ma che in Italia c’è chi “governa da dieci anni pur non avendo mai vinto le elezioni”. Qui servirebbe un ripassino di diritto costituzionale per capire come vengono eletti i membri del Parlamento, come viene nominato il Presidente del Cosiglio dei Ministri e come viene formato un governo, se non fosse che Meloni non può che saperlo benissimo, ma ciononostante sembra spingere la narrazione in una direzione ben precisa, contribuendo ad alimentare un conflitto tra cittadini e istituzioni, dove i primi non riconoscono le seconde e le considerano abusive. Il risultato è che le persone iniziano a convincersi davvero di questa distorsione e finiscono per parlare di “governi non eletti da nessuno” o altre inesattezze. Ma si sa, la politica dei sovranisti europei, quanto statunitensi, si basa su fake news, percezioni sfalsate diffuse attraverso i social, bugie che ripetute in continuazione per i loro seguaci si trasformano in verità.

Meloni prosegue parlando della decisione di Twitter e di altri social network di sospendere gli account di Donald Trump. “I giganti del web, società private, si arrogano il diritto di sostituirsi alla magistratura, alle istituzioni e alla costituzione americana oscurando e zittendo il Presidente USA”. Appunto: società private. Quando ci si iscrive su un social si accettano le condizioni, e un ban è la conseguenza di azioni non consone ai regolamenti di queste società. Non si tratta di censura: libertà di espressione non significa libertà di aizzare l’odio o diffondere notizie false. Un social ha tutto il diritto di silenziare gli account che vanno contro il proprio regolamento, che appartengano al presidente degli Stati Uniti o quisque de populo. Non a caso chi si occupa della comunicazione di Salvini e Meloni sui social si trova a cancellare migliaia di commenti “poco graditi” ai propri post. Alla luce di questo fatto banale risulta quantomeno fuori luogo che queste stesse persone si dipingano come paladini della libertà d’espressione.

Negli ultimi due punti della lettera, Meloni cerca di smarcarsi dalla nomea di “cheerleader di Trump”, la stessa che hanno affibbiato a Salvini, senza però prenderne mai le distanze. Ne approfitta, però, per attaccare gli avversari politici: “In queste ore Donald Trump viene dipinto dalla sinistra come un dittatore, un malato di mente, un uomo pericoloso da mettere al bando. Qualcosa mi sfugge. Parliamo dello stesso Trump considerato strategico nella nascita del Governo Conte bis, con il famoso tweet nel quale sperava di continuare a lavorare con “Giuseppi”?”. Anche qui Meloni ha le idee un po’ confuse: un conto è mantenere dei rapporti “d’amicizia” con gli USA, ai quali tra l’altro siamo obbligati sin dalla fine della seconda guerra mondiale, un altro è diventare il megafono italiano dei suoi deliri.

La realtà è che stiamo parlando di un presidente uscente che non ha accettato i risultati di un’elezione democratica nonostante sulle ipotesi di brogli sia stato smentito dalla Corte Suprema, dal Pentagono, dal Congresso e persino da numerosi membri del Partito Repubblicano. Continuare a difenderlo a oltranza, come fanno Meloni e altri politici italiani, vuol dire palesarsi come discepoli di una corrente mondiale, quella del sovranismo, senza rendersi conto di quando sia il momento di evitare di alimentare estremismi. È una difesa cieca che avvelena il dibattito pubblico e che ci proietta a una conclusione chiara: se Salvini e Meloni salissero al potere avremmo esattamente quel tipo di politica portata avanti da Trump, Bolsonaro, Johnson e Orban. È proprio questo il motivo per cui non c’è una presa di distanza netta, perché se avvenisse crollerebbe la struttura che i sovranisti hanno costruito in tutto il mondo in questi anni, e non possono permettersi di smentire se stessi.

Noi invece possiamo e dobbiamo permetterci di combattere affinché certi personaggi non arrivino mai al potere. Se ci riuscissero, sorretti dalla volontà popolare, accetteremmo il verdetto nel nome della democrazia, ma l’intero Paese dovrebbe poi assumersi le proprie responsabilità.

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