Meloni, facciamo un gioco? O la va o la spacca. Se il referendum sul premierato non passa, si dimetta. - THE VISION

In Italia, nell’ultimo decennio, abbiamo assistito a un fenomeno che ha coinvolto parecchi politici baciati dal momento di gloria. In seguito a un successo elettorale, tutti si sono sentiti Napoleone. Non erano più presidenti del Consiglio, vicepremier o ministri: nelle loro menti erano dei condottieri, degli autoproclamati protettori della nazione. La cosa pubblica apparteneva a loro. La sbornia del successo, l’illusione di immortalità insita nell’essere umano, o forse semplicemente delirio di onnipotenza. E così Napoleone Renzi, dopo un 40,8% alle elezioni europee, ha tentato di modificare la Costituzione personalizzando il referendum. Napoleone Di Maio, dopo il boom del M5S alle elezioni del 2018, si è affacciato da un balcone urlando al popolo di aver abolito la povertà – sempre pericolosi i balconi nell’iconografia storica del nostro Paese. Napoleone Salvini, dopo aver spolpato il M5S e avendo trionfato alle penultime elezioni europee, ha chiesto i pieni poteri in seguito a un mojito di troppo. Oggi, Napoleone Meloni, forte di un’ampia maggioranza, prova anche lei a mettere le mani sulla Costituzione, stavolta tentando di rendere il presidente della Repubblica un passacarte e quello del Consiglio il sovrano della nazione. Eppure la Storia ci insegna che, inevitabilmente, ogni Napoleone ha la sua Waterloo. Sono caduti tutti. Renzi conta i decimali per tentare di raggiungere invano una soglia di sbarramento. Di Maio è fuori dal Parlamento, fuori da qualsiasi partito politico. Salvini è stato appena sconfitto da un defunto, prendendo alle europee meno voti del candidato fantasma Berlusconi. Le loro Waterloo, parabole che li hanno ridicolizzati e resi invisi a quella che un tempo era una folla adorante, sono arrivate con la velocità con cui un elettore si accorge della presenza di altri simboli sulle schede elettorali. 

Matteo Salvini

La battaglia di Meloni è sul premierato, portato avanti attraverso il ddl Casellati. Qualche giorno fa il Senato ha votato a favore dell’art.5 del ddl, quello riguardante l’elezione diretta del presidente del Consiglio, con le opposizioni che per protesta hanno abbandonato l’aula. Questo passaggio specifico intende riscrivere l’art.92 della Costituzione – tra l’altro senza nemmeno spiegare che legge elettorale usare al posto di quella in vigore – ma ce ne sono anche altri che saranno, nelle intenzioni della destra, modificati per depotenziare il ruolo del presidente della Repubblica. Per esempio, il ddl prevede che quest’ultimo, in caso di caduta di un esecutivo, non possa dare l’incarico di formare un nuovo governo a un politico che non sia lo stesso appena caduto o un altro della stessa coalizione, di fatto impedendo governi tecnici di ogni tipo o un ribaltone parlamentare. Il potere verrà accentrato sul premier, un pericolo per la democrazia in quanto viatico per possibili svolte autocratiche che soltanto la Costituzione oggi riesce ad arginare.

La senatrice a vita Liliana Segre ha ammonito il governo qualche settimana fa, quando al Senato ha spiegato che non può e non vuole più tacere. Parlando del ddl Casellati, l’ha definito “una palese mortificazione del potere legislativo” con “vari aspetti allarmanti” che causerebbero “un’abnorme lesione della rappresentatività del parlamento”. L’aspetto positivo è che Meloni, a meno di cataclismi tra Camera e Senato, non potrà approvare questa riforma costituzionale senza passare da un referendum. I passaggi sono farraginosi ma utili proprio per non legiferare alla leggera. Ci sarà un ping pong tra le Commissioni, poi tra Camera e Senato a distanza di tre mesi, e con il voto finale sarà necessaria la maggioranza di 2/3 del parlamento, che il centrodestra non ha. Con la maggioranza in termini assoluti si andrebbe al referendum. Come, appunto, per la riforma referendaria di Renzi nel 2016. Sappiamo quanto a Meloni stia a cuore, avendola definita “la madre di tutte le riforme”. Ha usato anche l’espressione “o la va o la spacca”, ribadendo la priorità assoluta per il premierato. 

Giorgia Meloni

È la stessa premier a fornirci un assist per trasformare uno scenario apocalittico in una battaglia di resistenza. Per rivolgersi a un presidente del Consiglio di solito ci si adegua al perimetro della formalità, ma Meloni ha adottato un altro tipo di approccio. Nelle scorse settimane ha chiesto per l’appuntamento delle europee ai suoi elettori di scrivere “Giorgia” sulla scheda. Ha persino spiegato al popolo italiano le azioni di governo attraverso un diario che la figlia ha ornato di adesivi, i famosi “appunti di Giorgia”. Concede quindi una confidenza che non mi lascio scappare. Questo è un appello, forse una sfida, sicuramente un messaggio su un tema che cambierà il futuro del nostro Paese. Giorgia, facciamo un gioco? Non c’è nessun agguato, è tutto trasparente. Lei porta avanti il suo progetto di premierato alla Camera e al Senato fino ad arrivare al referendum. C’è un unico dettaglio, ovvero la posta in gioco: in caso di sconfitta deve dimettersi. Si è dimesso Renzi nel 2016, lo ha fatto anche Cameron dopo la Brexit. Non è un obbligo costituzionale farlo, ma perdere un referendum sulla “madre di tutte le riforme” vuol dire non avere il popolo dalla propria parte. Bisogna assumersi le responsabilità politiche dietro una scelta del genere. D’altronde lei ha sempre agito come se avesse tutti gli italiani dalla sua parte. Così non è, avendo ottenuto alle recenti europee il 28% con più del 50% d’astensionismo. Inoltre non è detto che tutti i suoi elettori vogliano stravolgere la Costituzione e abbracciare il progetto del premierato. Senza considerare la possibilità che gli astensionisti abbandonino il loro ozio politico per ripresentarsi alle urne con l’intento di fermare l’approvazione della suddetta riforma. Le opposizioni sono tutte compatte contro questo sfregio costituzionale. Persino Renzi, che con il progetto del “sindaco d’Italia” si avvicinava a una proposta simile a quella di Meloni, ha rinominato il ddl Casellati schifezzellum, una “riforma che non sta in piedi”. Dunque presidente – pardon, Giorgia – è ancora sicura di giocare tutte le fiches su questo tema?

Matteo Renzi

Ciò che mi ha sorpreso in questi mesi è che quasi nessun giornalista le ha fatto una domanda esplicita a riguardo, ovvero sulla possibilità di dimettersi in caso di fallimento al referendum. Soltanto un paio di settimane fa è venuto fuori l’argomento, durante la trasmissione di Rai 3 In mezz’ora. A Meloni è proprio cambiato lo sguardo, come se fosse impreparata, e a rispondere, ascoltando i toni, è stata la Giorgia del diario colorato, uscendosene con un “chissene” ben poco istituzionale. “Se la riforma non passa chi se ne importa. Niente dimissioni, io arrivo alla fine dei cinque anni e chiederò agli italiani di essere giudicata”. A me è sembrato un comportamento infantile, quasi capriccioso – entrambi aggettivi che tra l’altro possono essere associati al carattere di Napoleone, secondo alcune biografie e testimonianze storiche. Meloni tratta lo stravolgimento costituzionale come se fosse uno sfizio da togliersi, a costo di mettere in moto commissioni e camere per mesi o anni e indire un referendum che adesso minimizza con un chissene. Eppure non stiamo parlando di quisquilie: l’accentramento dei poteri, arma tanto cara alle destre di tutto il mondo, per osmosi non può che generare “la madre di tutte le resistenze”.

Giorgia Meloni

Già un accenno l’abbiamo avuto con l’esito di queste elezioni europee, con un risveglio dei giovani. Gli under 30 italiani hanno votato a sinistra, il tempo dell’apatia politica sembra essere giunto al termine. Meloni è la prima a saperlo, propone una riforma da sultanato e poi tentenna quando le viene chiesto di metterci la faccia, il nome, il destino del suo stesso governo. Poniamo l’ipotesi di una sconfitta referendaria: sarebbe sfiduciata in toto proprio perché la riforma riassume il pensiero destrorso del controllo delle istituzioni, dell’eliminazione dei paletti previsti dalla costituzione italiana a garanzia del nostro sistema democratico, che sembrano essere degli ostacoli alla loro concezione di esercizio del potere. Se davvero Meloni crede in questa riforma, spendersi in prima persona a costo di perdere il posto non è un dovere legale, ma morale sì. In qualche modo sta riuscendo anche a ricompattare le opposizioni, a rivitalizzarle dopo un periodo di anestesia politica. Adesso Schlein è attiva e pimpante come durante la sua campagna per le primarie del PD, un’alleanza come AVS sembra aver trovato la sua quadra e, nonostante l’ennesima batosta elettorale, anche il M5S ha riacquisito energie, soprattutto dopo la scena da far west (o da squadrismo fascista) alla Camera qualche giorno fa. Il centrosinistra si è addirittura riappropriato simbolicamente del tricolore, quello sotto forma di bandiera e non di fiamma. E se, a quanto pare, è una provocazione inaccettabile consegnarlo a un ministro, è bene che torni a sventolare senza cedere alla retorica del patriottismo sfrenato o del nazionalismo. 

Elly Schlein

Giorgia, noi non cederemo il passo alle politiche dell’intolleranza, alle discriminazioni, ai metodi squadristi. Ed questo “noi” si sta rinvigorendo, si gonfia sempre di più in base ai suoi tentativi di ribaltare i pilastri della nostra democrazia. Eravamo disillusi, disorientati, poco rappresentati. Per certi versi ancora lo siamo, ma qualcosa sta cambiando. La nostra resistenza non sarà violenta, non la toccherà sul piano personale, ma lei deve assumersi la responsabilità politica scelta dopo scelta. Sottrarsi al giudizio degli italiani – perché per il probabile referendum non sarebbe che questo: un giudizio sulla summa della sua visione politica – significa non avere il polso della situazione, su ciò che i cittadini desiderano. Non si tiri indietro, accetti il guanto di sfida se tiene davvero a questa riforma che noi consideriamo aberrante. Se rifiutasse mostrerebbe di essere debole e un’indole da politicante che pur di non mollare la poltrona rinnegherebbe i suoi stessi ideali.

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