Nella nuova narrazione nazional-populista siamo di fronte a una svolta epocale. La manovra del popolo, per il popolo. La fine dell’egemonia dei mercati finanziari a vantaggio degli ultimi, di chi è uscito sconfitto dalla crisi. I componenti pentastellati del governo del cambiamento si affacciano al balcone di Palazzo Chigi e rivendicano il risultato raggiunto, più deficit per i cittadini. I parlamentari acclamano i loro “super ministri” e intonano cori da stadio inneggiando al reddito di cittadinanza. Basta guardare oltre l’euforia per vedere come la politica economica di questo governo sia frutto di una propaganda esasperata, volta ad accentuare il conflitto con gli Stati membri dell’Unione europea e tutta sulle spalle delle nuove generazioni.
Con riferimento a quest’ultimo aspetto, è evidente che gli oneri di spesa programmati dal governo italiano si trasferiranno sulle nostre spalle tramite il meccanismo perverso per cui più deficit oggi genera più debito domani. Non credo che investire risorse in deficit sia sempre e comunque sbagliato. In alcuni casi si può, e anzi, si deve osare. Ma quando si decide di rischiare è fondamentale farlo per far crescere il Paese, facendo ripartire gli investimenti attraverso la spesa produttiva e incentivando l’inclusione nel tessuto sociale dei tantissimi giovani precari o disoccupati. Niente di tutto questo. Soltanto spesa improduttiva tesa a compiacere un elettorato sempre più irritato ed egoista. A danno della nostra generazione.
Stando agli annunci ufficiali, il reddito di cittadinanza entrerà in vigore a partire dall’anno prossimo. Il capo politico del M5S si è detto sicuro, la povertà sarà abolita. Per tale misura sono stati stanziati 10 miliardi di euro, di cui due per la riforma dei centri per l’impiego. Di Maio sostiene che saranno 6 milioni e mezzo i beneficiari dell’aiuto, cittadini residenti da almeno 10 anni: ciò significa 130 euro a testa in più al mese. Non sappiamo ancora come saranno distribuite le risorse, ma a quanto pare la povertà vive e lotterà contro Di Maio.
Oltre ai dubbi relativi all’ammontare delle risorse, è la natura assistenzialista del reddito di cittadinanza a destare preoccupazione – anche se negli ultimi anni la proposta si è evoluta rispetto alla misura universale pensata originariamente da Beppe Grillo. Persino la riforma dei centri per l‘impiego, che oggi non sono assolutamente in grado di mettere in comunicazione la domanda e l’offerta di lavoro (il 75% degli iscritti risulta ancora disoccupato), diventa espressione del peggior assistenzialismo italico, se affiancata a quella del reddito di cittadinanza. Secondo i dati, il principale problema dei Cpi sono proprio le risorse, sia in termini di personale (sono solo 9mila i dipendenti pubblici che vi lavorano), che in termini di denaro: non saranno dunque probabilmente sufficienti alla rivoluzione promessa i 2 miliardi stanziati. Inoltre, l’incentivo monetario potrebbe favorire il lavoro in nero, permettendo ai beneficiari di mantenere un lavoro informale e incassare il sussidio concesso dallo Stato. Ancora una volta, una pacca sulle spalle alla parte peggiore di questo Paese.
Secondo un sondaggio Ipsos, il 57% degli italiani vorrebbe che la legge Fornero venisse abolita. “Non si può lavorare fino a 70 anni” è una frase che si sente dire spesso. Peccato che l’età media a cui i cittadini italiani vanno attualmente in pensione rimanga vicina ai 62 anni, e lo scorso governo abbia già cercato di porre rimedio alle rigidità del nostro sistema previdenziale. La proposta del governo giallo verde, ovvero l’inserimento della “Quota 100”, permette invece ai lavoratori di andare in pensione in anticipo quando la somma tra età anagrafica e contributi versati raggiunge la soglia dei 100, tradotto: maggiori oneri per chi verserà i contributi in futuro. Non contenti di aver creato una generazione di precari piena di insicurezze, oggi il governo del cambiamento vuol far pagare ai giovani le pensioni delle generazioni che ci hanno trascinato in questa situazione.
Secondo il governo, la platea dei pensionandi in uscita sarebbe di circa 400mila unità, che lascerebbero spazio a un numero identico di giovani lavoratori in entrata. Ma la concezione di un mercato del lavoro statico, a somma zero, per cui il numero dei lavoratori che esce è uguale al numero dei lavoratori che entra, è falsa. Anzi, dai dati emerge il contrario: in fasi espansive del mercato del lavoro, l’aumento dell’occupazione nelle fasce più adulte della popolazione è sempre coinciso con l’aumento del lavoro per le fasce più giovani. Le assunzioni in azienda dipendono dalla loro capacità di assorbire determinate professionalità, e le mansioni dei pensionandi non corrispondono quasi mai alle mansioni alle quali sarà adibito un nuovo assunto.
Un altro inconveniente potrebbe derivare dalla cosiddetta flat tax, l’introduzione di un’aliquota unica al 15% per le partite Iva con redditi fino a 65mila euro. Questo limite potrebbe spingere i datori di lavoro a preferire il lavoro autonomo a dispetto di quello dipendente, generando proprio quello che Di Maio sostiene di aver abolito con il decreto Dignità: la precarietà. Se un’azienda è in grado di offrire un netto maggiore attraverso un contratto di lavoro autonomo, sarà lo stesso lavoratore ad essere incentivato ad aprire una partita Iva, anche se questa non garantisce le stesse tutele di un rapporto di lavoro dipendente. Insomma, tra una falsa partita Iva e una falsa disoccupazione, per percepire il reddito di cittadinanza non abbiamo che l’imbarazzo della scelta.
Dulcis in fundo, la pace fiscale. Un condono mascherato dall’insopportabile retorica per cui esistono soltanto cittadini onesti che vengono perseguitati dallo Stato e meritano di essere perdonati. Ad oggi sembra che si parli di una soglia massima di 500mila euro, abbassata rispetto al milione proposto dalla Lega. Ma mentre per Di Maio sarà incluso solo chi ha presentato dichiarazione dei redditi, Salvini non sembra voler fare alcuna distinzione tra la risoluzione di un contenzioso generato in buona fede e l’evasione impenitente e sistematica di chi non dichiara nemmeno un euro di reddito. Ciò che è certo è che un lavoratore dipendente, costretto a pagare le tasse fino all’ultimo centesimo, con davanti decenni di contributi da versare, non vedrà alcun vantaggio significativo da un condono. Al contrario, vivrà in un Paese più incerto, più iniquo, e avrà un grosso debito da ripagare.
In Italia esiste un dramma sociale che ha pesanti ricadute sul piano economico, la disoccupazione giovanile. La questione si risolve con investimenti e politiche di lungo periodo, non con mancette elettorali. È necessario ricostruire una comunità nazionale forte, in grado di offrire opportunità e sicurezza alle giovani generazioni. Invece si sta spaccando il Paese per beceri fini elettorali.
I numeri annunciati dimostrano che nessuno ci ha tolto sovranità. Certo, l’Europa potrà esprimere la sua opinione, rigettare la nostra legge di stabilità e persino sanzionarci, ma non potrà certo impedire l’approvazione di una legge ordinaria dello Stato italiano. Se c’è la volontà politica una legge si approva. Il punto è come usare la nostra sovranità. Cosa vogliamo farci. A quanto pare ci piace foraggiare la generazione che ha portato il debito pubblico alle stelle, lasciando i giovani con un futuro pieno di incertezze.