Il M5S si vanta di aver restituito 2 milioni, mentre l’Italia ha bruciato 107 miliardi

Peggio dell’ostentazione della ricchezza c’è soltanto una cosa: l’ostentazione di una povertà fittizia. Il pauperismo del M5S si colloca in quel disegno che ha segnato gli ultimi anni della politica italiana, dove tutto ruota intorno alla distorsione del ruolo dei soldi. L’immagine eloquente è il recente flash mob dei Cinque Stelle davanti al Parlamento, con Di Maio in prima fila a festeggiare per la restituzione di 2 milioni di euro dei loro stipendi, una somma ricavata nei primi mesi della nuova legislatura. Nello stesso lasso di tempo, a fronte di 2 milioni restituiti – i loro – il governo in carica ha bruciato virtualmente 107 miliardi di euro – i nostri – 3.300 euro per italiano.

Per comprendere la filosofia del M5S bisogna tornare alle sue origini. L’insoddisfazione popolare è sempre stata legata a doppio filo con l’insoddisfazione economica, l’idea che, mentre l’italiano medio tira la cinghia per arrivare a fine mese, il politico intasca somme ingenti. Grillo e Casaleggio hanno capito prima di tutti di poter sfruttare questo malcontento e usarlo come fondamento del loro progetto politico. Per far questo, hanno arruolato nelle loro fila politici improvvisati, nuove leve impassibili di fronte al taglio dello stipendio perché partivano da un reddito zero, o giù di lì. Di Maio e Di Battista sono l’esempio perfetto.

Alessandro Di Battista nel 2012, l’anno prima di entrare in Parlamento, dichiarava un reddito di circa 3mila euro. Nel 2017 ha invece dichiarato 113.471 euro, più di trenta volte la cifra della sua vita pre-politica. Addirittura, Luigi Di Maio e Roberto Fico nel 2012 avevano una dichiarazione dei redditi pari a zero, quindi per loro entrare in politica è stato un terno al Lotto, anche con le famose restituzioni, che comunque vanno chiarite. Ogni mese infatti, un parlamentare riceve un’indennità di 5.346 euro (netti) mensili, a cui vanno aggiunti una diaria di 3.500 euro e un rimborso per spese di mandato di 3.690 euro. A questi vanno sommati i bonus, come i 1.200 euro annui di rimborsi telefonici e quasi 4mila euro ogni tre mesi per i trasporti. Nel dettaglio, e cioè concentrandosi sull’ultimo mese da parlamentare di Di Maio, dicembre 2017 (i suoi dati sulla nuova legislatura, in cui è a capo di due ministeri, non sono ancora disponili) sul sito Tirendiconto risulta una restituzione di circa 2mila euro sull’indennità. Però balzano all’occhio i rimborsi, per una cifra che si avvicina ai 7mila euro, di cui 2mila restituiti. Tirando le somme, togliendo i soldi restituiti, il ministro del Lavoro e vice presidente del Consiglio ha incassato 8.192 euro, tra stipendio e rimborsi. Il M5S è quindi il vero ascensore sociale del Paese; bastano pochi clic su un blog, e cambia la vita.

Così si crea quell’alone di santità che giustifica ogni passo falso grillino. “Intanto loro restituiscono lo stipendio” è diventato il mantra dei loro sostenitori, la frase utile per ogni evenienza. Il capolavoro mediatico del M5S è stato proprio quello di trasformare uno stipendio alto in un’onta. Quando su Facebook pubblicano tabelle per denigrare i compensi del Boeri di turno, aizzano la gente facendo leva sull’invidia sociale. E pazienza se Boeri ha studiato per arrivare a occupare quella posizione, o se economisti come Francesco Giavazzi hanno 18mila citazioni in ambito scientifico sulle pubblicazioni (mentre Laura Castelli nessuna, per intenderci): sono benestanti, e questo basta per giustificare l’odio social. I grillini sono riusciti a ridurre i problemi della politica alla quantità di soldi percepiti e non alla qualità del lavoro svolto. Di fronte a un politico inadeguato che guadagna bene, la soluzione non è di certo rimuoverlo per sostituirlo con un altro che guadagna meno ed è ancora più inetto. I ruoli di responsabilità devono essere ben retribuiti; le modifiche semmai devono riguardare le competenze. Altrimenti si alimenta un processo che non tende a combattere la povertà, ma la ricchezza, con un crescente disprezzo per chi nella vita ha successo. 

Questo ha creato un fraintendimento anche nell’elettorato. Molti elettori di sinistra hanno votato il M5S per un’errata interpretazione di certi ideali, che in realtà non sono tali. Il pauperismo dei grillini non ha nulla a che fare con la contrapposizione tra proletariato e capitale, o con una fantomatica rivoluzione dal basso. L’idea di un tovarish Di Maio o di un Di Battista capopopolo in una lotta operaia è fuori dalla realtà. Semplicemente serviva seguire gli umori della gente, mostrarsi diversi dagli altri politici e basarsi proprio su questa discontinuità, almeno nelle intenzioni. Ma le derive pauperistiche sono un ostacolo per la promozione del merito, e la politica a costo zero allontana le eccellenze dal Parlamento proprio perché la ricchezza diventa un tabù e non una conseguenza di anni di studio e fatiche. Il tutto a discapito dello Stato. Risparmiare qualche milione di euro per avere al potere degli impreparati non è un buon affare, soprattutto quando i soldi bruciati tra spread,  interessi e scelte economiche disastrose (come l’ennesima riforma pensionistica i cui costi ricadranno sulle generazioni future) sono nettamente superiori. Secondo la fondazione Hume, da poco prima del 4 marzo il valore di mercato di obbligazioni societarie e governative e delle azioni di Piazza Affari è diminuito di 198 miliardi di euro, oltre il 10% del Pil. Se a questo si aggiungono i titoli di Stato detenuti da Banca d’Italia e investitori esteri, il passivo potenziale sarebbe di quasi 305 miliardi. È su questo che bisognerebbe imbastire un’analisi costi e benefici, per usare un linguaggio tanto in voga in questi giorni. E il governo ne uscirebbe a pezzi.

Anche perché, in perfetta sintonia con la migliore tradizione del “predicare bene e razzolare male” i grillini al governo spendono tanto. Lo spiegano bene i dati sulle spese dei Ministeri, dove quello dello Sviluppo Economico (cioè quello di Di Maio) surclassa tutti gli altri, con cifre che si aggirano sui 76 milioni di euro annui. Lo stesso Di Maio che poi si vanta su Facebook di viaggiare in seconda classe. Per non parlare dello stipendio spropositato di Rocco Casalino, che guadagna più di Conte, o dei rimborsi non restituiti – per milioni di euro – da un gruppo di grillini (scoperti da Le iene). Il paradosso parte dal vertice, e non a caso Beppe Grillo è colui che predica la povertà di San Francesco da un resort di lusso a Malindi,  o che mette sul suo blog il listino prezzi per le interviste (1000 euro a domanda, 2mila euro al minuto) e addirittura chiede 20mila euro per una cena con lui, in uno slancio alla Chiara Ferragni.

L’idea che la ricchezza sia deprecabile perché associabile alla “Casta” è il più grande abbaglio del M5S. Come se un bravo primario dovesse chiedere scusa ai pazienti che ha curato – in alcuni casi anche salvato – per il lauto stipendio. Allo stesso tempo risulta snervante la continua filippica sulle pensioni alte, come se fosse una colpa di chi ha lavorato per una vita per versare certi contributi. Tutto si riduce a questo: una politica che vince se esalta la propria mediocrità, con l’obiettivo di fingersi vicina alla “gente normale”. E la perfetta dimostrazione di questa ipocrisia viene ancora dal guru dei Cinque Stelle, Beppe Grillo: prima ha incensato l’azione dei suoi parlamentari di donare alla popolazione abruzzese soldi e ambulanze, poi ha fatto marcia indietro dopo la pesante sconfitta alle regionali, dichiarando: “Io accetto tutto, accetto che il popolo abruzzese abbia deciso e ha fatto benissimo. Chiedo solo una cosa ufficialmente, che ci diano indietro i 700mila euro che gli abbiamo dato l’anno scorso, quattro ambulanze e gli spazzaneve a turbina”. A qualcuno potrebbe suonare come una sorta di voto di scambio, con pentimento appunto.

L’idillio con gli elettori, che già sta scemando, finirà quando questi si accorgeranno che le risibili somme restituite dai grillini non solo non faranno crescere il Paese, ma saranno la giustificazione dietro la quale nascondersi per ogni collasso economico. E il primo, la recessione, è già tangibile. È sempre meglio un politico valido che prende uno stipendio pieno, piuttosto che un dilettante allo sbaraglio che se lo decurta mentre inneggia al pauperismo sulle macerie di una nazione. 

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