Il M5S è nato per “aprire il Parlamento come una scatola di tonno”. Oggi è il tonno.
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Jean-Jacques Rousseau scriveva che “La vera innocenza non ha vergogna di niente”. Ieri, sulla piattaforma online che porta il nome del filosofo, il M5S ha cessato di esistere proprio per salvare quell’alleato che si vergogna di dimostrare la sua presunta innocenza in un tribunale. 

La situazione era delle più spinose: il M5S doveva scegliere se non concedere al Tribunale dei Ministri di Catania l’autorizzazione a procedere nei confronti del ministro dell’interno Matteo Salvini, e quindi tradire la sua natura e la sua storia “millenaria” che ha sempre rifiutato l’immunità parlamentare, oppure concedere l’autorizzazione a procedere, rischiando di rompere con l’alleato di governo. In entrambi i casi, ne sarebbe uscito sconfitto. Ha deciso infine di lavarsene le mani e rispolverare l’arma Rousseau, perfetta per sottrarsi dalle responsabilità. La mossa pilatesca ha rappresentato la disgregazione di tutti i valori fondanti del M5S, che adesso non ha più ragione d’esistere, se non per continuare a reggere il cerino di Salvini, colui che dal 17% delle preferenze il 4 marzo si è divorato l’elettorato grillino, detenendo così il potere di staccare la spina dell’esecutivo quando vuole, uscendone comunque vincitore.

La giornata è stata complicata. Rousseau non ha retto, dimostrando una volta di più tutta l’obsolescenza di una piattaforma che, nonostante le ingenti somme prelevate dagli stipendi grillini per finanziare l’associazione, continua a essere decisamente inadeguata. L’hacker Rogue0, che aveva già colpito il sito, è riapparso, il voto è slittato e parecchi utenti hanno fatto fatica a esprimere la propria preferenza. Ma quel che più ha reso palese che si trattasse di un’operazione subdola, a tratti machiavellica, è stato il quesito posto dal M5S: “Il ritardo dello sbarco della nave Diciotti, per redistribuire i migranti nei vari paesi europei, è avvenuto per la tutela di un interesse dello Stato? Sì, quindi si nega l’autorizzazione a procedere. No, quindi si concede l’autorizzazione a procedere”. Poi è stato leggermente modificato nel corso della giornata, con l’aggiunta di “È avvenuto per la tutela di un interesse dello Stato” in caso di risposta affermativa e “Non è avvenuto per la tutela di un interesse dello Stato” in caso di risposta negativa. Dietro l’inganno dell’interesse di Stato sono stati commessi crimini contro l’umanità e le dittature hanno basato le loro malefatte.

Questa versione arzigogolata del quesito non è altro che un modo per sviare e confondere i votanti. Votare sì per dire no, no per dire sì – in una contorsione che è stata criticata dallo stesso Grillo – è il riflesso di una forza politica che basa la sua strategia comunicativa sulla manipolazione dell’elettorato. Come quando quel 2,4% di deficit è diventato 2,04, con la speranza di confondere i più distratti. Se però in questi mesi c’è stato un crollo verticale dei consensi del M5S, forse il suo elettorato è meno stupido di come viene considerato dai vertici grillini.

In questa strategia rientrano le acrobazie retoriche che il M5S ha dimostrato di padroneggiare, per cui un’alleanza è un “contratto di governo” e un condono è una “pace fiscale”. E così, in questo caso, è entrato in gioco “l’interesse di Stato”. Ovvero la traslazione della difesa di Salvini, che ha sempre dichiarato di aver agito per difendere i confini. Da chi, non è dato sapersi, visto che nel caso in questione i migranti (tra cui donne e bambini, molti di loro in precarie condizioni di salute) non erano su una nave pirata – una di quelle di cui blatera Giorgia Meloni – e nemmeno sull’imbarcazione di un’odiatissima Ong. Erano su una nave della nostra Marina Militare, e dunque giuridicamente si trovavano sul territorio italiano. In ogni caso sarebbe spettato alla Giustizia emettere il suo verdetto, come sempre sostenuto dal M5S in passato, non a 52mila persone su una piattaforma privata gestita dagli stessi vertici del Movimento e su cui aleggiano ancora dubbi su chi dovrebbe certificare i voti.

Sembrano così remoti i tempi in cui Di Maio dichiarava: “In Italia l’immunità parlamentare è sempre stata uno scudo per la politica, mai una garanzia. Visto l’abuso che si fa di questo istituto, è meglio abolirlo del tutto. È anacronistico ma soprattutto un oltraggio ai cittadini italiani”. Di certo affidarsi agli iscritti per uscire da questo cul de sac non può cancellare l’incoerenza di un movimento che ha rinnegato se stesso. In primis perché siamo in una democrazia rappresentativa, e forse il M5S non l’ha ancora compreso del tutto. I rappresentanti dei cittadini vengono eletti per prendere delle decisioni, non per inscenare la recita di una democrazia diretta che appare sempre di più una democrazia indirizzata, o una puntata malriuscita del Grande Fratello. 

Di Maio e i membri più in vista del M5S si sono schierati sin dall’inizio dalla parte di Salvini, tra memorie difensive a scoppio ritardato (visto che inizialmente il ministro faceva il gradasso, dichiarando di voler essere processato e di rinunciare all’immunità) e arrampicate sugli specchi. Si è creato un paradosso per cui una scelta del genere – decidere se il potere legislativo può dare il permesso al potere giudiziario di processare il potere esecutivo – viene affidata a un numero ristretto di persone. Non alla totalità dei cittadini italiani, non ai dieci milioni di elettori del Movimento, ma a poche migliaia di attivisti su una piattaforma dalla trasparenza non del tutto verificata, o per lo meno invischiata nel pantano del conflitto di interessi. E per di più senza offrire ai votanti, con le giuste tempistiche, il materiale necessario per poter prendere una decisione, ovvero le carte della magistratura.

Soltanto un mastodontico diversivo avrebbe potuto distogliere l’attenzione dal suicidio politico del M5S – l’arresto ai domiciliari dei genitori di Matteo Renzi, per esempio. Eppure, non potrà occultare quello che è il punto finale dell’esperienza politica dei grillini.

Dopo una giornata del genere era quasi inutile attendere il risultato del voto. Non solo perché fosse scontato, ma perché qualsiasi esito non avrebbe spostato di una virgola le sorti del M5S. Da giustizialista a garantista, da Attila inferociti a Ponzio Pilato, il suo destino era ormai segnato. Per dovere di cronaca, la base grillina ha salvato Salvini. Non con percentuali bulgare: ha votato contro il processo il 59,05%, ovvero 30.948 persone. Un numero risibile, meno della metà della capienza di San Siro, per intenderci. Un numero che ha però scavalcato la legge, il voto popolare e persino la storia del Movimento.Salvini avrebbe dovuto eventualmente andare a processo, non direttamente in galera. Eppure, ancora una volta, il quesito è stato travisato, come accadde nel 2016 quando il Referendum per la riforma costituzionale diventò Renzi sì-Renzi no. Oggi si è di fatto votato (agli occhi della maggioranza di Rousseau) per salvare il governo e non farlo cadere. 

Le conseguenze di questo voto proiettano ancor di più Salvini verso un dominio assoluto sulla scena politica. In un giorno solo ha visto la disfatta del M5S e del renzismo, e allo stesso tempo si è salvato dal processo. Meglio di così non poteva andare. Mentre il Pd si nasconde tra i suoi stessi tormenti e il M5S è stato fagocitato dal leader leghista. La curiosità adesso verte sul modo in cui il M5S affronterà tutti i passaggi successivi: come gestirà le questioni giudiziarie, in che modo toccherà quei temi ormai rinnegati, e come fingerà di essere ancora vivo. Manca solo l’abolizione del vincolo dei due mandati – ormai più che vicino – e del Movimento resteranno solo il nome e un simbolo sempre più sbiadito.

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