L’Italia è una penisola prevalentemente destrorsa. Era il segreto di Pulcinella, fino a ieri ci si proteggeva da questa verità con il monito di non confondere i sondaggi e gli umori con i voti reali. Adesso, dirompenti e ineluttabili, i voti reali sono arrivati: la Lega alle europee sfonda ampiamente il 30% ed è il primo partito italiano. È l’era di Matteo Salvini. E il dubbio – ma non la speranza – è che possa durare un altro ventennio.
Il leader del Carroccio arriva in sala stampa con il rosario in mano. Prima di commentare la vittoria lo bacia, così come fatto in campagna elettorale, e ringrazia nuovamente la Madonna. Qualche minuto prima aveva postato sui social una foto davanti a una libreria perfettamente in linea con la costruzione del suo personaggio. Nulla è lasciato al caso: c’è il libro di Putin, il cappellino di Trump, il santino di Franco Baresi, un Tapiro d’oro, un’ampolla della Lega e l’immagine di Cristo in un quadretto. Nella sede della Lega il sottosegretario Giancarlo Giorgetti intanto posiziona in bella vista una statua di Alberto da Giussano, un uovo di Pasqua del Milan e un canederlo sulla finestra della stanza su cui sono puntate le telecamere, come a voler rimarcare l’appartenenza territoriale. Non il miglior modo per ringraziare i nuovi elettori del Sud.
La conferenza stampa di Salvini è la liturgia delle parole preconfezionate, la prosopopea di chi sa di avere un Paese in pugno e di poter dire qualsiasi cosa. Parla di un nuovo vento europeo, ma l’invasione a Bruxelles dei sovranisti è stata quanto meno ridimensionata. Nonostante la vittoria della Le Pen, quella pleonastica di Farage e le conferme di Orbán, Kurz e del cucuzzaro di Visegrád, lo tsunami sovranista non c’è stato, e oggi è sempre più probabile una maggioranza formata da PPE, S&D e ALDE. Inoltre i Verdi, spinti dall’effetto-Greta, sono cresciuti in modo esponenziale. Salvini, prima di abbandonare la sala e promettere di presentarsi l’indomani al Viminale (una novità, considerando la sua allergia all’ufficio), non dimentica di ringraziare il vero artefice della sua ascesa, ribadendo che i grillini sono “amici e alleati”.
Già, il fu M5S, unico vero sconfitto di questa tornata elettorale. Finire sotto il 20%, perdendo quasi sei milioni di voti in poco più di un anno, è una catastrofe di dimensioni spropositate. Farsi superare da quel cimitero degli elefanti di nome Pd è l’onta finale su una strategia politica da scellerati – sempre che una strategia ci fosse. Se adesso assistiamo al rigurgito dei nazionalismi salviniani, la colpa è soprattutto loro. Non soltanto hanno siglato un’alleanza insensata con la Lega, tradendo i propri ideali (o, per meglio dire, il loro accrocco di ideali); hanno subito l’impeto del socio di minoranza, che dal basso del suo 17% ha dettato legge in lungo e largo. Per un anno il M5S è stato tanto succube quanto complice della politica di Salvini: ha accettato un decreto sicurezza in odor di anni Trenta, lo ha salvato da un processo venendo meno alla promessa di contrastare l’immunità parlamentare, ha abbassato la testa su Tap, condoni fiscali e salvataggi delle banche, per poi implodere. Non possono nemmeno sperare di consegnarsi all’oblio: saranno ricordati come quelli che hanno aperto la scatoletta di tonno. E dentro c’era Salvini.
Tramortiti dalla sconfitta nazionale, i grillini si ritrovano adesso anche senza alcun gruppo in Europa. I loro alleati – un mappazzone composto da gruppi di minoranza senza una precisa identità politica ed ex rockstar prestate alla politica – hanno fallito miseramente alle urne. La completa assenza di contenuti del M5S si è palesata ancora una volta nel post-voto. Quando era necessario presentarsi in sala stampa, spiegare i motivi del disastro e parlare con il loro elettorato, hanno deciso di darsi alla fuga. Nessuno si è preso la responsabilità di parlare, mostrando un’innegabile vigliaccheria e un’innata incapacità di perdere. E non può che strappare un sorriso quasi di tenerezza il commento “ai suoi” di Luigi Di Maio: “Siamo stati penalizzati dall’astensione”. Probabilmente si aspettavano questa sconfitta, d’altronde i sondaggi da mesi parlavano chiaro, ma non in questi termini. Adesso si ritrovano sotto scacco di Salvini, traditi da un Nord che non ha perdonato il collasso economico e da un Sud che in larga parte si è astenuto. Come per la Brexit e per l’elezione di Trump, sono state le periferie a determinare i risultati elettorali. Se Roma e Milano mantengono l’effigie del Pd, basta spostarsi di qualche chilometro e notare il mal di pancia della gente tramutato in voti per la Lega.
In particolare il Meridione è la cartina di tornasole di queste elezioni, con la Lega che orbita intorno al 25%. Piena sindrome di Stoccolma, considerando la natura del partito e gli insulti ai meridionali che hanno caratterizzato la storia leghista.
Se da un lato la destra della Meloni cresce e quella di Berlusconi inspiegabilmente esiste-resiste ancora, il Pd si trova in quella terra di mezzo dove è lecito tirare un sospiro di sollievo, ma è patetico esultare. Superare il M5S è sicuramente un motivo per ringalluzzirsi, ma il sorpasso è avvenuto più per demeriti altrui che per meriti propri. L’harakiri grillino non può considerarsi una vittoria per un partito che da marzo 2018 è incline all’immobilismo, nonostante un cambio al vertice. La politica dei pop corn e dell’attesa dei cadaveri sulla riva del fiume è la visione passiva di chi ha poco da proporre, e tanto da gufare. Aspettare sornioni il disastro, pregustando la frase “ve l’avevamo detto” denota immaturità politica, considerando l’assenza di proposte concrete. Quando poi Zingaretti parla di “ritrovato bipolarismo” forse si riferisce a quello del Pd, visto che l’unica analisi di queste elezioni è l’affermazione di una destra nazionalista al potere.
Il colpo di genio di Salvini è stato quello di smarcarsi dai ministeri più delicati, consegnandoli al M5S. Così i grillini si sono impantanati sugli errori legati all’economia, quelli che hanno causato la decrescita del Paese, mentre Salvini ha potuto gigioneggiare sull’astrattismo a lui caro: la minaccia dell’invasore, la percezione dell’immigrazione, il pugno di ferro per garantire al popolo un sergente di ferro, il condottiero che gli italiani invocano. Il M5S si è accorto con colpevole ritardo di questa dinamica, arrivano addirittura, nell’ultimo periodo della campagna elettorale, a fare la guerra contro il proprio alleato rivendicando i meriti di Gentiloni. La sublime arte del paradosso.
Adesso si prospetta uno scenario in cui Salvini – che giganteggiava già quando aveva le briciole –terrà sotto scacco il M5S, a partire dal decreto sicurezza bis passando per la decisione sulla TAV, per arrivare al nein per la legge sulla prescrizione e all’approvazione della sua Flat tax, non in versione annacquata. Se prima l’elettorato leghista era un misto tra imprenditori veneti e scalmanati con l’elmo in testa, adesso Salvini può contare praticamente su tutti gli strati della società. L’operaio e il padrone, il lombardo e il terrone: sono tutti riuniti sotto la bandiera di chi un tempo su quella stessa bandiera c’avrebbe volentieri cagato sopra – richiamando letteralmente il concetto. Ed è finito il tempo in cui viene ridicolizzato il calabrese disoccupato che vota Salvini, è necessario accettare la realtà e chiedersi semmai il perché. Quando Salvini governava con Berlusconi l’Italia è crollata economicamente. Con Salvini al governo insieme ai Cinque Stelle, idem. La Flat tax aiuterà il milionario, non chi non arriva a fine mese. Dunque la risposta non bisogna cercarla in arzigogolate riflessioni politiche, bensì nel ruolo del leader forte.
Il siciliano disoccupato ha votato Salvini, non la Lega. Per lo stesso motivo lo scorso anno aveva votato per il reddito di cittadinanza, non per il M5S. Evaporata la chimera di un reddito win-for-life, si è lasciato incantare dalle sirene di chi addossava la colpa della sua miseria a un nemico. Pazienza se sui rimpatri Salvini ha fallito, se non esiste nessuna invasione e se con il decreto sicurezza gli immigrati saranno in giro per le strade delle città, senza una dimora. Ormai la narrazione del nemico è andata a buon fine: l’immigrato, l’Europa, i radical chic, Saviano, Soros, i professoroni, gli intellettuali, la cultura in generale. Salvini non vende soluzioni, ma solida rabbia. Rabbia cieca, indirizzata verso un nemico immaginario. È la protezione non richiesta, il bullo che si erge a salvatore della patria, il nemico dei barconi, l’amico dei balconi.
Eppure in politica tutto è fluido, in un attimo l’eroe può insozzarsi nel fango. Matteo Renzi alle scorse europee prese il 41%, per poi cadere nel giro di qualche stagione. La speranza è quella che la gente possa aprire gli occhi di fronte al mercimonio politico di chi ha ridotto l’elettorato a una versione estesa del Vinci Salvini, di chi si nutre d’odio e alimenta gli istinti triviali del popolo.
Vittorio Zucconi, che ironicamente se n’è andato giusto in tempo per non assistere alla proclamazione dell’imperatore Matteo, diceva che “L’odio e la rabbia sono come le famose baionette di Napoleone: li puoi usare per vincere, ma poi è scomodo sedercisi sopra per governare”. E a sappiamo tutti come è finita a Napoleone.