In Lombardia aumentano morti e contagi. Ecco cosa succede a gestire una pandemia come una campagna elettorale.
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L’11 aprile scorso sul quotidiano La Repubblica compariva una pubblicità a pagamento in cui si elogiava il sistema sanitario lombardo che “ha permesso di arginare l’emergenza che così violentemente ha colpito la Lombardia”. A firmarla la giunta regionale, insieme alla Confindustria locale, l’Associazione degli ospedali privati (Aiop) e l’Associazione Religiosa Istituti Socio-Sanitari (Aris). Lo stesso giorno il bollettino quotidiano regionale registrava 273 decessi per COVID-19, portando a 10.511 il numero totale dei morti lombardi dall’inizio della pandemia fino a quella data. Questo scollamento netto tra i numeri reali e la presunta eccellenza nella gestione dell’emergenza sostenuta dall’amministrazione locale non rappresentava una novità di quel giorno, ma si trattava di un’attitudine evidente già nei primi momenti della crisi sanitaria. Oggi le cose non sono cambiate: dal Pirellone continuano a considerare il Coronavirus una sorta di spot elettorale, da sfruttare a livello comunicativo a discapito della realtà dei fatti.

Sono passati ormai tre mesi dal 21 febbraio, quando un paziente di Codogno è risultato positivo al tampone, diventando il caso uno italiano. Da quel giorno si sono susseguiti molti eventi ben riassunti dai dati su decessi e contagi, tuttora in crescita, e in immagini che sarà difficile cancellare dalla memoria collettiva. Il corteo di camion militari che trasportano le bare in provincia di Bergamo sono lo specchio di una regione dove, al 13 maggio, si contano 15.185 decessi ufficiali e 83.298 positivi. Numeri che sottostimano ampiamente la reale diffusione del virus e i suoi danni: molte persone sono morte senza che sia mai stato possibile effettuare loro un tampone, mentre i sindaci delle aree più colpite hanno denunciato uno scollamento tra le medie dei decessi nei mesi di marzo/aprile degli anni precedenti e quelli di quest’anno – esclusi i morti ufficiali per COVID-19. Eppure Giulio Gallera, assessore alla sanità e il welfare della Regione, non ha mai avuto dubbi: la Lombardia ha retto benissimo. d’altronde si sa che una delle regole della propaganda è quella di negare l’evidenza.

Giulio Gallera

Come ha ricostruito un dettagliato articolo de Il Post, già da una relazione del 2010 si sapeva che la regione non era pronta ad affrontare una situazione di emergenza sanitaria. Gli errori della giunta Fontana sono anche il frutto di inefficienze del passato aggravate dalla visione sanitaria dell’ex presidente di regione Roberto Formigoni. C’è lui all’origine dello schema pubblico-privato su cui è fondato il sistema sanitario lombardo, dove l’eccellenza privata delle visite specialistiche o delle operazioni chirurgiche ha finito per mettere in secondo piano a suon di tagli i pronto soccorso, la medicina territoriale e la cura della malattie rare – perché meno profittevoli. Un modello che aveva già mostrato le sue crepe nel momento in cui il suo ideatore è stato condannato in via definitiva dalla Cassazione a cinque anni e dieci mesi per corruzione nel processo per il crac delle fondazioni Maugeri e San Raffaele e che ha sancito di fatto la fine della sua carriera politica. È in questo contesto già di per sé precario che si è insediato il duo del presidente leghista della regione Attilio Fontana e del suo assessore Giulio Gallera di Forza di Italia, fedeli ideologicamente e politicamente al modello formigoniano, e capaci con le loro decisioni di renderlo ancora più vulnerabile davanti all’emergenza COVID-19.

Roberto Formigoni

Nelle settimane precedenti alla crisi, la regione Lombardia non ha fatto altro che nominare un’unità di crisi insieme alla Protezione civile. A fine febbraio, quando iniziava a essere evidente la necessità delle mascherine, ha ordinato l’acquisto di quattro milioni di dispositivi che però non è mai stato portato a termine per un errore nella scelta dei fornitori. Nel territorio messo maggiormente in ginocchio a livello nazionale da morti e contagi, non si è poi mai stati in grado di effettuare abbastanza tamponi per individuare i malati e circoscrivere la diffusione dei virus tra i loro contatti. Questo a causa della mancanza iniziale dei reagenti, ma anche dell’incapacità regionale di prendere decisioni adeguate all’evolversi della situazione – per quanto dal Pirellone si continuasse a puntare il dito contro il governo di Roma. La regione, sotto la pressione degli industriali, non ha neanche avuto la determinazione di istituire a fine febbraio una seconda zona rossa, dopo quella di Codogno, nell’area bergamasca di Alzano Lombardo, nonostante le prove della presenza di un ampio focolaio.

Ancora più gravi sono le responsabilità nella gestione delle Rsa regionali. Per alleggerire la pressione negli ospedali, la giunta Fontana ha approvato una serie di delibere per trasferire in queste strutture i malati meno gravi di COVID-19, innescando una violenta catena di contagio che è costata la vita a migliaia di anziani. Ha poi disposto finanziamenti per le strutture che prendevano in carico i contagiati, incentivando così anche strutture non adeguatamente attrezzate ad accoglierne. Infine, ha ordinato di non trasferire più nei pronto soccorso i malati di COVID-19 ultra 75enni presenti nelle residenze. Un rapporto del 14 aprile dell’Istituto superiore di sanità ha sottolineato che nei mesi di febbraio e marzo in 266 delle circa 700 Rsa della Lombardia 1.625 persone sono morte per il virus o sue complicazioni.

Eppure di tutto questo non si è mai trovata traccia nella comunicazione istituzionale della Regione. Dal Pirellone ci si è lanciati in un quotidiano auto-elogio, unito a una buona dose di scaricabarile quando proprio non c’era altra via di uscita “Mi contesteranno qualsiasi cosa, ma rifarei tutto”, ha dichiarato in un’intervista ad aprile inoltrato il governatore Fontana, mentre il 6 aprile, davanti a circa 10mila morti, l’assessore alla protezione civile Pietro Foroni è riuscito a dire che “fino a questo momento le abbiamo azzeccate tutte”. La pagina pubblicitaria su Repubblica e altri quotidiani nazionali e locali dove si è esaltato il lavoro fatto in regione appartiene dunque allo stesso storytelling, una linea politica consapevole dei propri errori ma che tra il prendersi le proprie responsabilità e il far finta di nulla, ha scelto la seconda strada.

Pietro Foroni

La massima espressione della pandemia come comizio elettorale l’abbiamo avuta con le numerose, e per alcune settimane quotidiane, conferenze stampa delle 18 di Giulio Gallera. Un monologo dove i numeri tragici diventano solo sfondo, sovrastati da una serie di scenette in cui il braccio destro di Fontana se la prende con il governo, si lancia in paragoni molto deboli con altre regioni minuziosamente scelte per far spiccare il modello Lombardia, avanza teorie al limite del ridicolo e estrae dal mazzo delle carte il capro espiatorio di turno a cui addossare le colpe di quei numeri che a un certo punto della conferenza vanno comunque forniti. Con una forma di comunicazione simile, l’obiettivo di informare viene meno. Non si dice alcunchè riguardo alle strategie regionali per il futuro, non si hanno notizie sui luoghi in cui avvengono i contagi, non si può sapere come dal Pirellone stiano gestendo il problema delle Rsa, non è chiarito perché dal nulla vengano refertati decessi e contagi relativi a diverse settimane prima. E anche a voler fare direttamente queste domande, non è possibile: il format dello show di Gallera non prevede pubblico in studio.

Qualche conferenza stampa vera in questi due mesi si è comunque tenuta. Per esempio il 31 marzo, con l’inaugurazione in pompa magna del nuovo ospedale in Fiera organizzato in tempi brevi per offrire nuovi posti di terapia intensiva a un sistema sanitario regionale che, per quanto definito eccellente, non sapeva più dove ricoverare i malati. In quella data di giornalisti ce n’erano fin troppi, tanto da scatenare polemiche per l’incoerenza di una giunta che mai come in quei giorni era impegnata nella caccia al runner untore, ma che poi si assembrava con la stampa per brindare al nuovo ospedale. All’inaugurazione-comizio, il presidente Fontana ha sottolineato che il governo non aveva meriti nella nascita del polo, poi definito “il simbolo della battaglia vinta sul Coronavirus, il simbolo della ripresa della regione”. E in effetti lo è stato, se con questo si intende che non è servito praticamente a nessuno. Come ha sottolineato il professor Antonio Pesenti del Policlinico di Milano, entro fine maggio la struttura dovrebbe già chiudere, dopo aver ospitato solo 25 pazienti in due mesi. Pochini per un’opera costata 21 milioni di euro. Certamente il fatto che l’ospedale in Fiera non sia servito è una buona notizia, ma viene da chiedersi se la cifra potesse essere spesa in modo migliore. Per esempio potenziando quella medicina territoriale fatta di medici di base e guardie mediche che è stata il vero anello debole della risposta lombarda all’emergenza, o magari elaborando una politica più capillare sui tamponi, seguendo il modello sicuramente più costoso ma anche più efficiente del Veneto. Di fronte alle polemiche il governatore lombardo ha comunque giurato che l’ospedale in Fiera “servirà in futuro”, in quello che è sembrato un macabro auspicio: poter rivendere all’elettorato, quando sarà il momento, l’intuizione della sua realizzazione con il più classico dei ve l’avevo detto.

Il grande e auto-proclamato successo regionale sull’ospedale deve aver dato la spinta per una nuova ondata di propaganda ottimistica nelle settimane successive. Ci sono stati gli annunci su piani di ripresa pronti a essere messi in pista, credibili solo nella parte sviluppata dagli uffici marketing – il programma delle 4 D: distanza, dispositivi, digitalizzazione, diagnosi, che è durato giusto il tempo di un comunicato stampa. Ci sono stati i video a marchio Regione Lombardia che ci hanno riportato indietro di due mesi, ai tempi del #milanononsiferma – con frasi tipo “la Lombardia è pronta” e “adesso è il tempo di ripartire, di ricominciare, di una nuova normalità”, mentre sullo sfondo scorrevano paesaggi urbani patinati e persone sorridenti. Ci sono stati, infine, gli annunci sull’avanguardia lombarda nei nuovi test sierologici e tamponi a tappeto con cui accompagnare i cittadini a questa nuova normalità – si è poi scoperto che essi verranno messi a disposizione delle strutture private, a pagamento. Mentre in regione hanno continuato a raccontarci con tutti i mezzi di comunicazione a disposizione i grandi risultati passati, presenti e futuri, alla conferenza stampa delle 18 continuavano però a fornire i dati sui decessi tra i più gravi di tutto il Paese, a testimonianza di un’incredibile distanza tra narrazione e realtà.

Attilio Fontana

A oggi, in Lombardia ci sono registrati ufficialmente il 5% dei decessi di COVID-19 mondiali. Sempre oggi, diversi territori da giorni a contagi e morti zero sono ostaggio di una regione dove quotidianamente si contano decine di decessi e centinaia di nuovi contagi gonfiano la tabella delle statistiche ufficiali. La Lombardia è stata ed è una delle aree più martoriate a livello globale dalla pandemia in corso ed è dimostrato come a questo abbiano contribuito una serie di problematiche ed errori politici locali, tanto del passato quanto del presente. Davanti a questa situazione, di fronte a 15mila decessi e ad altre migliaia di persone che vedranno la fine di questa pandemia con il dramma di aver perso uno o più familiari, il massimo che ci si poteva aspettare dalla politica era una gestione responsabile della crisi, almeno un silenzio denso di imbarazzo. Quello che ci si è dovuti sorbire, invece, è stato un perenne comizio elettorale.

In oltre due mesi, dal Pirellone non si è mai riusciti a separare l’emergenza sanitaria dalla vita politica e l’obiettivo primario, la quasi totalità degli sforzi, si è concentrata non sulla salvaguardia della popolazione, quanto sul saper comunicare bene una tutela che non è mai stata davvero pianificata. Quei pochi secondi del bollettino quotidiano sono in realtà l’unico momento di comunicazione veritiero che la Lombardia ha offerto negli ultimi due mesi, un ago in quel pagliaio elettorale su cui la giunta locale ha cercato di costruire un consenso nella tragedia. Il duo Fontana Gallera è riuscito in un solo grande risultato, ma non quello che vorrebbe raccontarci. In poche settimane ha stravolto la reputazione di una regione spesso associata tanto in Italia quanto all’estero a termini come locomotiva, eccellenza, avanguardia. Tutto questo ora è stato messo in secondo piano dalla morte di migliaia di cittadini e dal dolore e della rabbia di chi li ha persi per sempre. Il conto che sta pagando la regione non è solo il risultato degli errori fatti dai suoi politici, ma anche e soprattutto la conseguenza di un approccio propagandistico di questo tipo: correggere gli errori avrebbe significato ammetterli, ma al Pirellone hanno preferito proseguire lungo la strada più accidentata.

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