Dopo l’elezione dei presidenti delle Camere, la lista dei ministri del nuovo esecutivo e l’insediamento di Giorgia Meloni, a lasciare perplessi è lo stupore di una fetta del Paese. Più che indignazione è quasi un effetto sorpresa, come se non si aspettassero che un partito di estrema destra si comportasse, appunto, da partito di estrema destra. Meloni non ha bisogno di una versione di Nanni Moretti neofascista che la esorti a dire o a fare “qualcosa di destra”: a differenza della sua controparte politica, lei lo dice e lo fa. Per cui abbiamo al potere un Adolfo e un Benito Maria, collezionisti di cimeli del Ventennio, politici “orgogliosamente fascisti”, antiabortisti, conservatori e allergici ai diritti civili. Se ci pensiamo, sarebbe stato strano il contrario. In questi anni, siamo stati pervasi dalla liturgia del “né di destra né di sinistra”, dalla post-ideologia che ha disorientato un po’ tutti, e questo brusco risveglio ci ha portati a constatare che Giorgia Meloni non è Nilde Iotti e un saluto romano non è un pugno chiuso.
Abbiamo avuto quasi un mese per metabolizzare il risultato (democratico, non dimentichiamocelo), eppure, pecchiamo ancora di ingenuità anche soltanto leggendo i nomi dei nuovi ministeri. Se quello della Sovranità Alimentare – nome introdotto quest’anno anche dalla Francia, dove richiama un modello già esistente basato sulla sostenibilità e la giustizia sociale – si presta, molto probabilmente, a essere stravolto in ottica nazionalista e antiecologica, quello dell’Istruzione e del Merito suona come l’avvisaglia di una distinzione tra studenti di serie A e di serie B, o un ponte al concetto aleatorio di meritocrazia che sfuma sul nascere, se Meloni nomina suo cognato come ministro. In entrambi i casi la nomenclatura rimanda a una muscolarità che parte dal linguaggio. Mancano soltanto il Ministero per la Patria, quello per la Gioventù Italiana del Littorio e il MinCulPop per completare l’opera, ma d’altronde le radici nostalgiche sono quelle. Qualcuno ha anche provato a consolarsi dicendo che, in fondo, non è un esecutivo così “fascista” se ben 11 ministri sono gli stessi dell’ultimo governo Berlusconi. Poco da rallegrarsi, però, della pretesa componente più moderata, considerando che all’epoca i personaggi che la compongono furono costretti a dimettersi perché l’Italia stava facendo la fine della Grecia, e che non ci fu un lancio di monetine di craxiana memoria solo perché in quegli anni, a differenza del periodo di Tangentopoli, le nostre tasche erano vuote.
Leggendo la lista dei ministri ci chiediamo cosa abbiamo fatto per meritarci tutto questo, ma l’accettare le regole della democrazia è il primo fondamento della nostra Repubblica, quindi tocca abbozzare. Certo, dare la Farnesina (Antonio Tajani) a Forza Italia dopo aver ascoltato le dolcezze tra Berlusconi e Putin sembra uno schiaffo al buonsenso e agli equilibri geopolitici, così come lo stratagemma di non mettere Salvini direttamente all’Interno, ma piazzarci un suo braccio destro (Matteo Piantedosi), già attivo nella stesura dei decreti Sicurezza.
Se può sembrare ambiguo affidare l’Istruzione a un personaggio (Giuseppe Valditara) che nei suoi libri spiegava come l’Impero romano fosse crollato a causa degli immigrati, mettere al Turismo la proprietaria di uno stabilimento balneare (Daniela Santanchè) – nonché dichiarata fascista e preoccupata per l’assenza di un imprescindibile aeroporto a Cortina per la comodità di Briatore e della sua cricca – odora di conflitto di interessi. La stessa accusa cade su Guido Crosetto, neo ministro della Difesa, che ha avuto fino a qualche giorno fa ruoli di potere all’interno di aziende che si occupano di armi. È vero che ha rinunciato a tutti gli incarichi in questione, ma resta quella stessa opacità che accompagna la nomina di Gennaro Sangiuliano alla Cultura, che durante tutta la campagna elettorale è stato direttore del TG2, quindi all’interno di un servizio pubblico, e che è un sovranista di ferro, nonché biografo – o agiografo, verrebbe da dire con malizia – di Putin e di Trump. Restiamo interdetti, ma evidentemente a destra non avevano di meglio da proporre in questi ruoli.
Forse qualcuno ha sorriso guardando le storie su Instagram di Anna Maria Bernini, ministra dell’Università e della Ricerca, che ha scambiato il giuramento al Quirinale con l’occasione per un post social. Io no. E non mi fa sorridere nemmeno che Roberto Calderoli, nel 2013 dava dell’“orango” all’allora ministra Cecile Kyenge, ora si ritrovi ministro per la quarta volta. Nemmeno il tempo di tirare un sospiro di sollievo accorgendoci di avere come ministro della Salute addirittura un medico (Orazio Schillaci), fortemente a favore di vaccini e green pass, che l’entusiasmo precipita di nuovo leggendo il nome di Nello Musumeci al ministero del Sud e del Mare. Musumeci, all’inizio dello scorso agosto, annunciò di dimettersi dalla presidenza della Regione Sicilia. Le tempistiche del suo congedo anticipato dalla presidenza di una regione ridotta a fanalino di coda nella gestione dell pandemia – tra gli scandali dei dati falsati e dei c.d. “morti spalmati” – avevano, del resto, da subito fatto sospettare un calcolo politico in ragione del pronosticato successo di FdI alle elezioni e del possibile conferimento di un nuovo incarico da parte della sua leader. Un altro azzardo, poi, è insistere ancora su Elisabetta Casellati sotto le pressioni per averla alla Giustizia di Berlusconi, colui che evidentemente ricatta anche chi non è ricattabile.
Eppure, tutti aspettavamo Meloni al varco per il nome da indicare per occuparsi dei diritti civili. Al ministero della Famiglia, Natalità e Pari Opportunità è andata Eugenia Roccella, e questo è forse il punto più preoccupante di una lista già di per sé deludente. Roccella ha dichiarato pochi mesi fa che l’aborto “esula dal territorio del diritto”, ed è contraria anche alle unioni civili, all’eutanasia (ne sa qualcosa Beppino Englaro), alla pillola Ru486 e ai principali diritti per la comunità LGBTI+. Ultraconservatrice del Family Day, da anni porta avanti battaglie a favore della presunta “famiglia tradizionale”. Anche qui, viene da chiedersi come possiamo stupirci di fronte a questa scelta, considerando la tendenza della destra a seguire questo oscurantismo a tal punto da appropriarsene in campagna elettorale. D’altronde, la coalizione, tramite Maurizio Gasparri, ha già presentato tre disegni di legge incontrovertibilmente antiabortisti, quindi non potevamo aspettarci dal nuovo governo un’apertura mentale e visioni politiche che non gli appartengono. Se i modelli di Meloni e dei suoi alleati sono la Polonia e l’Ungheria – e per qualcuno anche la Russia di Putin – è chiaro che la direzione intrapresa con le nomine dei ministri andrà a confermare un pensiero radicato in una cultura bigotta e discriminatoria. D’altronde, gli elettori di Fratelli d’Italia sono tutti in brodo di giuggiole davanti a questa lista dei ministri, che sono stati nominati proprio perché sono ciò che sono, non per somigliare alla destra liberale che la sinistra spera di avere come avversaria. Quella non esiste, quindi abituiamoci a nazionalismo e alle tagliole sui diritti.
Meloni, però, non è una stupida e sa che non può tirare a campare con i precetti da Dio-Patria-Famiglia, soprattutto in un periodo di crisi internazionale del genere. Dunque, dopo anni di presunta opposizione contro Draghi, si affida a lui e ai suoi uomini per uscire dal crepaccio di un inverno che si annuncia più che ostile. Ha così dato un incarico di consulente per l’energia a Roberto Cingolani, ex ministro della transizione ecologica sotto Draghi, segnando una continuità con un esecutivo che veniva rispettato all’estero. Allo stesso tempo ha incontrato Macron la sera stessa del suo insediamento, quando fino a pochi anni fa lo criticava aspramente, e ha dato pieno sostegno all’Ucraina. Con diversi “amici di Putin” all’interno della coalizione risulta un appoggio quantomeno traballante, ma è già qualcosa. Questo perché Meloni sa che senza un minimo di credibilità agli occhi dell’Unione Europea e della Nato il Paese rischia l’isolamento. La sensazione è quella del doppiogiochismo praticato da Polonia e Ungheria, in prima fila per ricevere i fondi europei ma allergici a diversi principi dell’UE. Staremo a vedere fino a che punto Roma assorbirà i tratti di Budapest, ma l’inizio non è dei più promettenti, nonostante le vaghe rassicurazioni di facciata.
Possiamo quindi dire che la prima premier di estrema destra della storia repubblicana stia mostrando, purtroppo, tutta la sua coerenza. Evidentemente gli italiani volevano, o sono stati indotti propagandisticamente a volere, meno diritti e più discriminazioni, meno accoglienza e più muri. Nessuna congiura: è la democrazia. Forse qualcuno nel PD finalmente si desterà dal suo sonno decennale. Con calma, perché sono ancora alle prese con l’analisi della sconfitta. Intanto, nel M5S sono impegnati a organizzare la manifestazione per la resa dell’Ucraina, dunque non disturbiamoli. Mentre assistiamo all’ascesa dell’estrema destra, a chi non ha votato queste forze politiche spetta un solo compito: resistere. In tutti i sensi.