Enrico Letta, fai una cosa di sinistra. Fuori dal partito chi ha votato contro il ddl Zan. - THE VISION

Dopo la tagliola al Senato che ha fermato l’iter del ddl Zan, il centrosinistra è tornato a rispolverare il suo cavallo di battaglia: l’analisi della sconfitta. Qualcuno pensava che la vittoria alle recenti elezioni amministrative avesse trasformato Enrico Letta in uno statista e il Pd in un partito coeso. In realtà, le votazioni a livello comunale e regionali sono più legate ai singoli nomi che ai partiti e dato che la destra non ha affatto brillato nella scelta dei propri candidati, ha lasciato agli avversari una vittoria alla Steven Bradbury. Già Letta pregustava un “nuovo Ulivo”, si lanciava in aperture da Calenda all’ultimo dei grillini, presentandosi alla resa dei conti sul ddl Zan con la sicurezza del vincitore. Avrebbe dovuto ripassare la storia del suo stesso partito per subodorare la fregatura.

Carlo Calenda

La tagliola proposta dai capigruppo al Senato di Lega e Fratelli d’Italia è passata con 154 voti favorevoli, 131 contrari e 2 astenuti. Dunque il ddl è stato affossato dai franchi tiratori del centrosinistra. Che la destra osteggiasse il ddl era scontato a livello ideologico: per mesi ha fatto di tutto per evitarne l’approvazione, dagli infiniti emendamenti a una campagna mediatica basata sulla distorsione dello stesso testo. Salvini ha sempre associato il ddl all’utero in affitto, al lavaggio del cervello ai bambini o ad altre questioni non attinenti la proposta di Zan; mentre Meloni ha insistito con la tiritera sulla fantomatica teoria del gender. Il centrosinistra, però, non ha tenuto conto delle solite, insanabili divisioni interne.

Matteo Salvini
Giorgia Meloni

Come prima reazione c’è stato il rimpallo delle accuse. Letta ha parlato di “rottura di fiducia” con Italia Viva, lasciando intendere che prima di questa votazione si fidasse ancora di Matteo Renzi, lo stesso politico che l’aveva defenestrato a tradimento. Renzi, dal canto suo, ha parlato di “disastro politico” di Letta e del Movimento Cinque Stelle, rinfacciando le mancate aperture sulle modifiche al testo. Renzi tentava da mesi di annacquare il ddl, portando avanti al Senato un’insensata battaglia più politica che ideologica, e ora esce definitivamente – stavolta sarebbe il caso che se ne accorgessero tutti – dalla galassia del centrosinistra per trovare una collocazione nel suo ambiente naturale: più o meno dalle parti di Forza Italia. E questo è un pessimo segnale per le votazioni del prossimo presidente della Repubblica. È sempre buffo rimarcare come Renzi si lanci in certe filippiche nel momento sbagliato e da luoghi improbabili. In questo caso l’Arabia Saudita, ormai sua seconda patria, dove ha tentato di dare lezioni di diritti civili al centrosinistra in uno dei luoghi del pianeta in cui sono pressoché assenti. Renzi ha detto solo una cosa giusta: anche numericamente, non potevano essere i soli senatori di Italia Viva ad affossare il ddl, quindi è bene che Letta faccia un’analisi interna al suo partito, a costo di trasformarla in un repulisti.

Matteo Renzi

Il voto segreto – strumento spesso infame, ma previsto dalla Costituzione – ha più volte cambiato il destino della politica italiana e se Letta è diventato presidente del Consiglio lo deve proprio a uno di questi casi. Era il 2013, l’allora segretario del Pd Pierluigi Bersani aveva ottenuto una vittoria stiracchiata alle elezioni, da molti considerata una “non vittoria”, e incombeva la votazione del presidente della Repubblica. Come primo nome Bersani propose Franco Marini, ex presidente del Senato, una candidatura che non avrebbe del tutto scontentato il centrodestra. A opporsi fu l’ala renziana del Pd. Per il quarto scrutinio fu quindi proposto Romano Prodi. Sembrava tutto fatto, ma ci furono addirittura 101 franchi tiratori che votarono contro, causando una concatenazione di eventi degna di una sceneggiatura hollywoodiana: Giorgio Napolitano fu rieletto per un secondo mandato, Bersani si dimise da segretario del Pd, Letta fu nominato presidente del Consiglio e Renzi, acquisendo potere all’interno del partito, dopo avergli detto di “stare sereno” lo tradì dopo solo un anno, portando il Nazareno a sfiduciarlo e dando il via libera come nuovo premier al politico di Rignano. Se oggi, otto anni dopo, stiamo ancora parlando di franchi tiratori e di duelli tra Letta e Renzi, vuol dire che il centrosinistra non è ancora uscito da una palude in cui si è evidentemente sviluppato il suo Dna, e non si vedono modi per uscirne.

Letta, invece di parlare in continuazione del Pd come di un partito dell’inclusione, dovrebbe innanzitutto allontanare certe frange distanti, almeno in teoria, dall’universo del centrosinistra. Magari, con otto anni di ritardo, si è anche reso conto di non potersi fidare di Renzi, ma questo non basta. All’interno del partito ci sono troppe anime. Queste sfumature, che inizialmente hanno caratterizzato una nuova stagione politica, essendo nato il Pd veltroniano proprio con l’intento di unire forze dalle ideologie non sempre convergenti, ora rendono impossibile qualsiasi direzione. Forse l’errore sta alla base, e su certi temi diventa marchiano. Mettere insieme ex comunisti ed ex democristiani, rutelliani, ciellini e centristi può aiutare a far numero in ottica elettorale, ma sui grandi temi le divisioni appaiono inevitabili. Nel Pd c’è sempre chi ha operato come longa manus della Cei, i cosiddetti teodem che hanno trovato spazio nel partito. Se per anni c’è stato posto per le Paola Binetti di turno, era inevitabile arrivare a uno scrutinio segreto sui diritti civili e viverlo come una roulette russa.

Simone Pillon e Matteo Salvini esultano dopo la votazione al Senato sul DDL Zan, 2021

Letta è stato accusato di presunzione per non aver modificato alcuni passaggi del testo, ma in realtà è l’unica mossa giusta che ha fatto nell’approccio al ddl, perché le modifiche chieste dalla destra e da Italia Viva avrebbero di fatto annullato gli intenti della proposta di Zan, snaturando il nucleo centrale del ddl. La destra paventava il rischio del reato d’opinione, ma non c’era alcuna base solida che potesse prevederlo: era solo propaganda, e quella più subdola perché retta dalla retorica di leader capaci di far credere ai propri elettori qualsiasi cosa. Basta fare un giro sui commenti nelle loro pagine Facebook per capire come il ddl sia stato travisato dal primo all’ultimo punto. La maggior parte dei commenti, infatti, si può riassumere con la frase: “Bene così, la famiglia non si tocca”. Ma nessuno voleva toccarla.

La presunzione di Letta, semmai, è stata quella di presentarsi alla votazione pensando di avere la vittoria in tasca, e la sua intransigenza non è tanto il mancato accordo con la destra – ovvero un compromesso per un ddl monco – quanto l’assenza di dialogo all’interno del suo stesso partito. Ciò denota un problema di leadership, perché se non vengono seguite le direttive del segretario su questioni così rappresentative per la politica del partito, come avvenuto in questo frangente, si è evidentemente davanti a un partito spaccato. Servirebbe maggior chiarezza e Letta, per avere il polso della situazione e rimettere insieme i cocci, dovrebbe emarginare dal Pd chi ha impedito al Paese di avere una misura che si attendeva da decenni e la cui assenza ci pone sullo stesso livello della Polonia e della Repubblica Ceca, le uniche altre nazioni dell’Unione Europea a non avere una legge contro l’omofobia, oltre a tutta una serie di posizioni discutibili.

Invece di mettere qualche paletto e fare chiarezza sul posizionamento politico e ideologico del partito, Letta ha fatto l’ennesimo appello a Forza Italia, chiedendosi: “Sta nel Ppe o con Pillon e Orban? È la Forza Italia che dovrebbe stare con Ursula Von Der Leyen?”. Viene da chiedersi per quale motivo il principale partito di centrosinistra dovrebbe pretendere spiegazioni a chi si trova nella coalizione opposta, tra l’altro con il rischio concreto di avere Silvio Berlusconi al Quirinale. Forse a Letta sta sfuggendo un po’ di mano il suo aperturismo.

Silvio Berlusconi

Mercoledì abbiamo assistito alla barbarie di chi esulta sguaiatamente in aula per la mancata tutela dei diritti fondamentali, e la condanna di queste scene da parte del Pd non è stata particolarmente convincente. Forse sarebbe il caso di concentrarsi su una compattezza d’intenti piuttosto che sui mezzucci per ottenere numeri più alti in parlamento, perché dietro ogni numero c’è una testa che, se nascosta dal voto segreto, vota evidentemente seguendo la sua natura e non quella di un partito che evidentemente non possiede una chiara identità. Letta deve essere chiaro: vuole dirigere un partito progressista o un’accozzaglia multiforme? Nel primo caso: è bene che proceda prendendo una posizione netta e agendo di conseguenza; nel secondo: che si allinei pure al pressappochismo politico di chi campa per occupare le poltrone, con il rischio di essere ricordato come l’ennesimo segretario del Pd che ha sprecato la sua occasione.

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