La discussione sulla legge sull’omotransfobia si sta incagliando, per l’ennesima volta, sul desiderio di conciliazione tra le parti. Dopo le critiche della Conferenza episcopale italiana che hanno paventato il rischio di una “deriva liberticida” e l’immediata mobilitazione degli ambienti cattolici, il promotore della legge Alessandro Zan ha subito messo le mani avanti con un’intervista al quotidiano della Cei, Avvenire, assicurando che nel testo finale verrà eliminato ogni riferimento alle opinioni. Dietro lo scudo delle “legittime opinioni”, però, si nascondono tutti quegli attacchi – a volte anche molto violenti – che proprio la legge avrebbe dovuto sanzionare. E così siamo punto e a capo: l’ennesima legge annacquata che per far contenti tutti non aiuta concretamente nessuno. Anche se dovesse venire approvato questo disegno di legge, non possiamo più accontentarci di provvedimenti simbolici o “segnali forti”: il nostro Paese deve decidere da che parte stare, se con gli omofobi o con il resto dell’Europa friendly e inclusiva.
Qualcosa di simile era già successo nel 2013, quando la precedente proposta di legge sull’omofobia presentata da Ivan Scalfarotto (altro promotore, assieme a Zan, di quella attuale) si risolse in un nulla di fatto. Dopo le pesanti critiche da parte degli ambienti conservatori e dalla destra – e il voto contrario del Movimento 5 Stelle in Senato, che voleva spingere i propri disegni di legge in materia – Scalfarotto propose il cosiddetto “emendamento salvavescovi” che rendeva inapplicabile la legge se la condotta discriminatoria fosse stata messa in atto da organizzazioni di natura politica, culturale o religiosa: di fatto così si lasciava carta bianca a tutte quelle associazioni e a quei partiti che si fanno promotrici di messaggi omofobi, andando a punire solo i singoli cittadini. Scalfarotto fu duramente criticato dalle associazioni LGBTQ+, che a ragione si lamentarono della mancata presa di posizione del Pd, allora al governo con il premier Enrico Letta, in coalizione con il Pdl e Scelta Civica: gli equilibri politici venivano prima dell’approvazione di una legge attesa da più di vent’anni.
L’endemica mancanza di coraggio del partito che dovrebbe rappresentare l’ala progressista del nostro Paese sembra continuamente giustificata dall’opportunismo del momento, a discapito però dei cittadini che lo Stato dovrebbe tutelare. L’Italia, infatti, sembra non riuscire a fare pace con il riconoscimento dell’esistenza della comunità LGBTQ+, che coinvolge dai 2,4 ai 3,6 milioni di abitanti. Queste persone, pur costituendo circa il 6% della popolazione, per la politica è come se non esistessero. La cancellazione di gay, lesbiche, trans e persone queer ha radici molto lontane: quando il 28 giugno 1935 il regime nazista approvò le leggi contro gli “atti considerati crimini contro la decenza e commessi tra individui di sesso maschile”, Mussolini non fece altrettanto, perché secondo lui “In Italia [erano] tutti maschi”, cioè gli omosessuali non esistevano. Approvare una legge contro di loro significava infatti ammetterne la stessa esistenza e compromettere l’onore del popolo italiano. La pratica repressiva del regime contro gli uomini gay quindi diventò il confino: relegati su isole remote, ce se ne poteva dimenticare. In un certo senso questo atteggiamento è arrivato fino a oggi: le questioni LGBTQ+ non hanno visibilità e non meritano considerazione politica finché non diventano talmente impellenti da non poter essere più ignorate.
Cominciarono a esserlo negli anni Settanta, sulla scia del movimento di liberazione omosessuale, che negli Stati Uniti aveva ottenuto importanti riconoscimenti. Se i primi gruppi LGBTQ+ italiani non erano interessati tanto a una validazione legale delle loro istanze, quanto a una liberazione sessuale, a partire dal convegno dei movimenti omosessuali – organizzato a Torino nel 1978 – e grazie all’influenza del Fuori! – legato al Partito radicale – gli sforzi cominciarono a concentrarsi sui diritti civili. Una prima vittoria, anche se all’epoca i due movimenti non erano legati come lo sono oggi, fu la legge 164 del 1982 sulle “Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso”, voluta fortemente dal Movimento italiano transessuale (oggi Movimento identità trans). Negli anni Ottanta, il movimento LGBTQ+ italiano cercò, con non poche difficoltà, di allearsi con il Pci, in particolare con i sindaci comunisti delle grandi città, potendo anche contare su una nuova associazione, Arcigay. Nel 1987 a Rimini si tenne il terzo congresso di Arcigay con la partecipazione di alcuni parlamentari, dove per la prima volta si discusse la possibilità di approvare una legge sul razzismo che punisse anche le discriminazioni nei confronti degli omosessuali.
Negli anni Novanta, l’ingresso di parlamentari gay e lesbiche in Parlamento permise per la prima volta una rappresentanza istituzionale della comunità che, direttamente dalle aule di Montecitorio, poteva finalmente portare avanti i propri interessi. Il 24 ottobre del 1996 Nichi Vendola, deputato con Rifondazione comunista, presentò una proposta di legge che, al pari di quella attualmente in discussione, andava a modificare la legge Mancino sulle discriminazioni del 1993. Il 17 maggio dello stesso anno Vendola aveva presentato anche una pionieristica proposta sulle unioni civili con conseguente divieto di discriminazione per le coppie omosessuali. Nel 1997 la senatrice Ersilia Salvato (sempre di Rifondazione) presentò un articolato disegno di legge “contro la discriminazione motivata dall’orientamento sessuale”. Il ddl prevedeva, oltre alle modifiche alla legge Mancino, anche l’estensione della protezione dalla discriminazione nello Statuto dei lavoratori a quella basata sull’orientamento sessuale, la parità di trattamento salariale, la tutela dei dati sensibili, la parificazione giuridica dei conviventi omosessuali e l’educazione sessuale nelle scuole. Il disegno non fu nemmeno discusso. Ci riprovò Franco Grillini dei Democratici di sinistra, storico militante di Arcigay, nel 2001 con una proposta di legge costituzionale di modifica dell’articolo 3 della Carta e nel 2006 con l’istituzione della Giornata nazionale contro l’omofobia. Infine, prima di Scalfarotto, due altre iniziative vennero promosse dalla deputata del Partito democratico Anna Paola Concia, la prima nel 2008 – dove per la prima volta accanto all’orientamento sessuale comparve l’identità di genere – e la seconda nel 2011.
Anche per quanto riguarda la legge sulle unioni civili, approvata con fatica nel 2016, abbiamo assistito a un gioco al ribasso: le unioni civili non sono infatti equiparabili al matrimonio egualitario, attualmente possibile in 16 Stati dell’Unione europea; e la controversa “stepchild adoption” (la possibilità di adottare il figlio del o della partner) è stata espunta dalla legge dopo infiniti dibattiti, lasciando così ai giudici la facoltà di decidere in merito, creando enorme confusione e discrezionalità. In quest’ultimo caso a opporsi non fu soltanto la destra, ma anche la corrente cattolica del Pd e il M5S. Così, anche per il diritto di famiglia ci ritroviamo con una legge a metà, che è sicuramente meglio di niente, ma che non è certo all’altezza di ciò che accade nel resto dell’Europa.
Secondo l’ultimo rapporto Society at a Glance dell’Oecd (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), l’Italia è molto indietro rispetto agli altri Paesi che fanno parte dell’Organizzazione. Per quanto riguarda l’accettazione dell’omosessualità, su una scala da 1 a 10, l’Italia ha un punteggio di 3, due punti al di sotto della media Oecd. Secondo l’indice Rainbow Europe a cura dell’Ilga-Europe (International Lesbian and Gay Association) l’Italia è invece al 35esimo posto, su 49 Paesi europei, per la protezione dei diritti LGBTQ+: solo il 23% dei diritti umani per questa comunità è infatti garantito. I problemi segnalati da Ilga sono molti, tra questi: diffusione di discorsi e iniziative alimentate da pregiudizi, episodi di violenza omotransfobica, mancanza di protocolli medici condivisi per le persone intersessuali, mancato riconoscimento dei figli adottivi delle coppie dello stesso sesso, difficoltà nel reperimento dei farmaci per la transizione. In più l’Italia riconosce come “Paesi di origine sicuri” per i richiedenti asilo, e quindi per eventuali rimpatri, anche nazioni in cui l’omosessualità è illegale. Tra le raccomandazioni dell’Ilga c’è l’adozione di un piano nazionale d’azione per la comunità LGBTQ+ che espliciti l’esistenza della discriminazione basata sull’orientamento sessuale, l’identità di genere e le caratteristiche sessuali.
È arrivata l’ora che la politica si assuma questa responsabilità per il bene di un Paese in cui, per fortuna, non sono tutti maschi.