L’Italia sta andando in recessione. E a nessuno importa.
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Abbiamo passato gran parte del 2018 nell’instabilità: prima la campagna elettorale incentrata sul tema dell’immigrazione, tanto feroce da creare un clima di tensione. Dopo il 4 marzo, l’incertezza della coalizione di governo: tre mesi in cui sono state ipotizzate le alleanze più fantasiose, arrivando a invocare l’impeachment per il capo dello Stato. Infine l’insediarsi del governo gialloverde: un’amministrazione che fino a ora ha inanellato discutibili leggi sulla sicurezza e astruse discussioni sul reddito di cittadinanza. Per tutto l’anno ci siamo chiesti quali sarebbero state le conseguenze che avremmo dovuto pagare. Adesso le prime risposte sono arrivate, e non fanno presagire nulla di buono.

Secondo l’Istat il Pil è calato dello 0,1% rispetto al trimestre precedente, una battuta d’arresto che non si verificava dal secondo trimestre del 2014. Dopo quattordici trimestri in crescita, l’Italia è costretta a fermarsi: il tasso di disoccupazione a ottobre è salito fino al 10,6%, con un aumento dello 0,2% rispetto a settembre. Se andiamo a convertire i decimali in posti di lavoro, possiamo capire quanto questi dati, che a primo impatto sembrano avere scarti risibili, esprimano in realtà un disagio tangibile dell’economia nazionale. L’Istat ha rilevato che i disoccupati nel mese di ottobre erano 2 milioni e 746mila, ovvero 64mila in più rispetto al mese precedente. A farne le spese sono i più giovani e le donne, le fasce meno tutelate. La disoccupazione giovanile si attesta al 32,5%, mentre quella femminile cresce di 0,3% nel solo mese di settembre e arriva all’11,8%. Quest’anno in 168mila, fra i 35 e i 49 anni, hanno perso il lavoro: fra i dipendenti in 140mila hanno perso il tempo indeterminato e 296mila sono stati assunti a tempo determinato. Il centro studi di Confindustria rileva che nell’ultimo trimestre la produzione è calata dello 0,5% – dello 0,7% da inizio anno – e allo stesso modo gli ordini per ottobre sono scesi dello 0,3%, e dello 0,9%. Sulla situazione economica Confindustria è stata lapidaria: “Il calo dell’attività è coerente con l’andamento negativo del clima di fiducia degli imprenditori manifatturieri. La dinamica degli ordini e le attese delle imprese non lasciano intravedere alcun miglioramento nel breve termine”.

Questi dati descrivono un Paese bloccato: se è vero che, tecnicamente, per definire “in recessione” la situazione economica servono tre trimestri con i conti in rosso, c’è da dire che non è la prima volta che riceviamo un chiaro segnale in merito sul futuro. A ottobre lo spread è salito sopra i 300 punti, un andamento che nel mese di novembre non ha accennato a diminuire: attualmente, l’indice si attesta fra i 280 e i 290 punti. Il governo ci ha messo del suo, mostrandosi poco disposto a trattare con l’Europa e mandando in fibrillazione i mercati. A ottobre, quando l’indice è arrivato a quota 335 punti, il ministro dell’Economia Giovanni Tria – riguardo alla Legge di Bilancio 2019 che prevede lo sforamento del deficit-Pil del 2,4% – ha dichiarato: “Per ora non ci sono dei motivi per cambiarla perché pensiamo che la manovra sia corretta. È corretta perché il contesto economico è cambiato da giugno ad oggi. Non c’è nessun piano B”. Gli ha fatto eco Salvini dicendo: “In passato il governo Berlusconi è caduto perché è arretrato, noi non arretreremo”. E di Maio non è stato da meno: “Lo spread è a 327 per una sola ragione, perché i mercati pensano che questo governo non sia più compatto”.

Giovanni Tria

Queste prese di posizione sono arrivate in risposta alla lettera della Commisione europea che ha chiesto accertamenti sui conti pubblici italiani. L’Ue, a fronte di un impegno italiano a mantenere il deficit allo 0,8%, poi mutato nel 2,4%, ha paventato l’avvio di una procedura d’infrazione per debito pubblico eccessivo. Se in un primo momento il governo ha scelto di non ascoltare i moniti europei con l’Europa, dopo che la manovra è stata bocciata ha dovuto fare marcia indietro, aprendo a possibili cambiamenti, soprattutto sul reale impatto del deficit. In effetti nel testo che è andato in Parlamento sono assenti i due cavalli di battaglia dei giallo-verdi: la riforma del sistema pensionistico, con conseguente abolizione della legge Fornero, e il reddito di cittadinanza.

Sul reddito di cittadinanza, in particolare, la situazione sembra essere tragicomica. Ogni giorno trapelano novità e dettagli sulla manovra Cinque Stelle. Secondo le ultime indiscrezioni, a ogni richiedente verrà affiancato un tutor che lo seguirà nella ricerca di lavoro. Questo significa un numero ingente di assunzioni statali e una conseguente riorganizzazione in tempi record dei centri dell’impiego, che versano in condizioni disastrose. Inoltre Di Maio ha affermato che ha dato mandato di stampare circa sei milioni di tessere per il reddito, a chi o attraverso quale procedura di governo non è dato saperlo. E forse non lo sa neanche Laura Castelli che, incalzata a Otto e mezzo, ha aggiunto un altro sorprendente paragrafo al suo già ricco curriculum, rispondendo con risolini e silenzi imbarazzati alle domande di Gruber.

Laura Castelli

Mentre il governo impiega il proprio tempo a battibeccare con l’Unione europea o a rilasciare dichiarazioni fantasiose sul reddito di cittadinanza, i mercati esprimono i propri dubbi sul direttivo giallo-verde e l’economia nazionale si avvia verso un lento declino. Le banche italiane non godono di buona salute, gli scossoni dei mercati non fanno bene, i risparmi degli italiani non sono al sicuro. Un caso esemplare è quello della Carige, la Cassa di Risparmio di Genova e Imperia: nel 2017 ha perso 388 milioni su 516 di fatturato, se andasse in default, come ammoniscono le stime degli analisti, rischierebbe di lasciare a casa 4.500 dipendenti.

Eppure il governo scherza con il fuoco e sembra non preoccuparsi del risultato negativo del Pil nell’ultimo trimestre. Il premier Conte, in Argentina per il G20, si limita a un laconico “se il Pil scende lo faremo crescere con la manovra”, e poi aggiunge “noi non scendiamo al di sotto di quelle che sono le riforme per cui ci siamo impegnati con gli italiani, la linea rossa sono le riforme senz’altro” – parole di circostanza che non lasciano intravedere una direzione precisa. Di Maio, al contrario, ha già trovato il suo capro espiatorio: “C’è uno 0,1% in meno e questo significa che la manovra del governo Gentiloni è stata insipida e non espansiva,” ha commentato, per poi continuare dicendo che “la manovra 2018 non ha fatto ripartire l’economia. Nel 2019 ripartirà perché inietteremo risorse fresche”.

Niente di nuovo: la strategia comunicativa ed elettorale dei Cinque stelle si basa sull’individuazione di un nemico, qualcuno che incarni le istituzioni e i fantomatici “poteri forti”. Grazie a questo avatar il M5S può giustificare la propria impotenza, lamentandosi di avere le mani legate o di dover rimediare ai guasti degli altri. Se all’inizio della loro storia i nemici erano i politici in generale, e in campagna elettorale è diventato il governo Renzi, adesso che sono loro a governare ricercano il capro espiratorio fra i giornalisti o nelle amministrazioni precedenti, l’importante è riuscire sempre a mascherare la propria incompetenza.

Giuseppe Conte

Stavolta, però, i dati non si possono truccare o eludere. Dopo mesi di scelte di governo confusionarie sono arrivati i primi esiti di questa amministrazione. Se l’economia va in recessione non basterà qualche tweet contro i migranti o una bizzarra dichiarazione sul reddito di cittadinanza per spostare l’attenzione dai conti in rosso. I gialloverdi devono mettersi in testa che, per impedire al Paese di affondare, bisogna accantonare le divergenze con l’Unione europea e intraprendere una politica economica in modo concertato con gli altri Paesi, e soprattutto a lungo raggio.

La manovra che sta per essere varata è attesa dall’esecutivo come una misura salvifica, ma non è così. La stabilità finanziaria di un Paese si costruisce passo dopo passo, ma il governo non sembra avere la lungimiranza o le capacità per farlo. Fra i picchi dello spread e le cadute del Pil i conti italiani traballano, in un repentino saliscendi che va a colpire i cittadini.  La variazione di un decimale nel Pil si traduce in posti di lavoro persi, l’impennata dello spread in tassi d’interesse più alti. Dietro i numeri ci sono dei disagi reali per la collettività che, di mese in mese, si ritrova sempre più povera.

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