Quando è davvero finita, gli uomini cosiddetti forti si mostrano per quello che sono, leader politici minuscoli e autoritari, incapaci di saper perdere. Il canto del cigno di Donald Trump è la sua requisitoria contro i democratici colpevoli di “rubargli il voto”: l’ormai ex presidente statunitense ripete da giorni l’accusa ossessiva di “frode” senza la minima prova. Più o meno la stessa fine grottesca che sta facendo l’amico-nemico Steve Bannon, il guru di estrema destra della sua campagna elettorale del 2016 e poi suo capo stratega alla Casa Bianca, ispiratore dell’internazionale sovranista che in Europa ha arruolato anche la Lega di Matteo Salvini e Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Bannon, ultimamente in rapporti turbolenti con Trump (cacciato dalla Casa Bianca, per vedetta è diventato la gola profonda del bestseller molto critico su Trump Fire and Fury), è tornato al suo fianco per gridare al mondo la sua rabbia. Nell’ultimo podcast della sua piattaforma War room: pandemic, Bannon si è augurato di “tornare ai tempi dell’Inghilterra dei Tudor”, così da poter decapitare l’immunologo Anthony Fauci e il direttore dell’Fbi Christopher Wray, e “appendere le loro teste ai due angoli della Casa Bianca, a monito per i burocrati federali”. È evidente che tanto Trump quanto Bannon siano già all’angolo del dibattito pubblico, e sparino le ultime cartucce per tornare al centro: la violenza verbale del presidente uscente è la stessa del suo ex stratega, tant’è che entrambi vengono puntualmente censurati, in toto o in parte, dai social network e dai media nazionali.
Twitter, per esempio, sta indicando come inattendibili e fuorvianti tutti i tweet di Trump che contengono le accuse di brogli elettorali (censurate dalle tv statunitensi negli ultimi discorsi presidenziali), e ha immediatamente rimosso il profilo della War room di Bannon. Youtube ha oscurato il video di Bannon sulle decapitazioni. Le segnalazioni e i tagli sono anche dovute al fatto che le invettive di Trump e di Bannon sono passibili di sanzioni penali: possono fomentare attacchi da parte delle frange armate dell’estrema destra che gravitano attorno alla piattaforma internazionale dell’alt-right Breitbart News, (diretta da Bannon tra il 2012 e il 2018) come indicano anche i report dell’intelligence interna.
La ragione di fondo dietro alla crescente emarginazione mediatica dei due capofila del sovranismo è comunque anche che, per le loro stesse azioni, sia Trump che Bannon sono ormai impresentabili. Lo scorso agosto Bannon è stato arrestato insieme a tre soci con l’accusa di “frode e associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio di denaro”, riguardo agli oltre 25 milioni di dollari raccolti in una campagna online per costruire con fondi privati un tratto di muro con il Messico; liberato su cauzione, può spostarsi solo fra New York e Washington. Trump, pur uscendo di scena con 70 milioni di voti, si rifiuta di ammettere la sconfitta e di concedere la vittoria al democratico Joe Biden.
Asserragliandosi alla Casa Bianca come in un bunker, salvo uscirne solo per andare a giocare a golf, anche Trump rischia di andare a sbattere contro un muro. Metà dei repubblicani gli sta già voltando le spalle, guidati dal capogruppo al Senato Mitch McConnell, un tempo suo scudo anti-impeachment e ora “dalla parte della tradizione del trasferimento pacifico del potere che negli Usa risale al 1792”, cioè con Biden. Uno dopo l’altro, anche i capi di governo che erano più in sintonia con il sovranismo negazionista di Trump si smarcano dalle caricature di entrambi. Il premier britannico euroscettico Boris Johnson, per esempio, che nel 2019 ha portato il Regno Unito fuori dall’Unione europea, durante l’esperienza anche personale della pandemia da Coronavirus si è mostrato più capace di autocritica di Trump, allontanandosi man mano dalle politiche economiche e sociali sovraniste. Nonostante Biden lo abbia di recente definito un “clone di Trump”, Johnson si è subito congratulato con lui e con la sua vice Kamala Harris, pronto a una “stretta collaborazione”. La stessa apertura è arrivata da Benjamin Netanyahu, sebbene il primo ministro israeliano debba moltissimo alle politiche di Trump e sia come lui un populista. Sembra incredibile ma persino il premier ungherese Viktor Orbán e il presidente polacco Andrzej Duda, i due leader ultranazionalisti del Gruppo di Visegrad – alleati di punta di Meloni nel suo progetto reazionario di un’Europa dalle radici cristiane – si stanno complimentando con Biden, pronti a “nuove relazioni” e ad “alleanze ancora più forti” con gli Stati Uniti.
In questa fuga dal Titanic lo scettro (o a questo punto piuttosto il cerino) europeo dell’internazionale sovranista di Bannon rischia di restare in mano al cartello italiano di Meloni e Salvini, i più fedeli verso l’ideologo statunitense che in questi anni li ha adottati incensandoli come suoi discepoli dell’alt-right. Con la francese Marine Le Pen, i leader della Lega e di FdI sono gli unici a non aver ancora rivolto parole di augurio al nuovo presidente Biden. Salvini, dopo l’appoggio in un’intervista a Radio24 e in una sua diretta su Instagram alle “false teorie di cospirazione sul voto americano” è stato ribattezzato dall’Independent il “cheerleader” di Trump. Meloni, in veste di presidente del raggruppamento dei partiti ultraconservatori della destra nazionalista all’Europarlamento (Ecr), avrebbe dovuto rivolgere a Biden almeno un messaggio di rito. In un’intervista alla Stampa sulle Presidenziali negli Stati Uniti ha preferito dichiarare che “se davvero Biden vincerà, dovrà ringraziare il Covid”, riaffermando le “tesi vincenti del sovranismo”, ancora “vivo e vegeto”. Esattamente come Trump, Meloni non incolpa i supporter armati dei repubblicani della “violenza della campagna elettorale”, ma la “sinistra americana” antifascista, che lavorerebbe “solo per demolire l’avversario”, ovvero “trasformare in un mostro” Trump.
L’aspetto più inquietante dell’arroccarsi sull’estrema destra suprematista dell’ex militante missina è che, come Salvini, rifiuta da mesi qualsiasi presa di distanze da Bannon. La scorsa estate, dopo il suo arresto, Meloni non ha speso una sola parola di condanna verso lo stratega che sulle sue piattaforme online attrae anche diversi simpatizzanti neonazisti. Un legame di ferro che risale al 2018, quando la leader di FdI fu la prima a sdoganare Bannon “come un amico” con cui “costruire alleanze”, invitandolo a Roma alla festa di Atreju (l’ex festa annuale di Azione giovani). Poco dopo Fratelli d’Italia e Lega sarebbero stati i primi – e unici – partiti europei a entrare senza titubanze in The movement, l’embrione di rete transnazionale sovranista di Bannon mai decollata a causa delle riserve di altri leader anche dell’estrema destra nazionalista, come Le Pen, che avevano manifestato interesse per il progetto di Bannon ma restavano perplessi sull’opportunità di accostarsi a un personaggio così controverso. Forse è proprio per la disponibilità immediata trovata in Salvini e Meloni, che ancora a luglio scorso l’ex stratega di Trump guardava ai due italiani come ai leader di punta per la sua internazionale. Probabilmente per lo stesso motivo oggi i due gli mostrano tanto attaccamento e rispetto: nonostante sia incalzata a farlo, Meloni non si esprime neanche sulle frasi di Bannon sulle decapitazioni.
Salvini e Meloni rischiano però di ritrovarsi leader del nulla, ridimensionati, prima ancora che dalla sconfitta di Trump, dal vuoto delle loro politiche nazionali. Non è una prerogativa italiana che, in questa pandemia, i movimenti xenofobi di estrema destra perdano terreno per l’inconsistenza dei loro programmi, marginalizzati dal loro negazionismo mentre tutte le altre forze politiche si ricompattano nelle politiche di unità nazionale: in Germania Alternative für Deutschland (AfD) è scesa nel 2020 sotto al 10%, in Austria la Fpö è crollata dal 31% del 2019 al 10%. Continuando a inoltrarsi nel vicolo cieco di Bannon e di Trump è facile intuire quale potrebbe diventare, anche nel nostro Paese, la futura base elettorale dei sovranisti: le guerriglie urbane esplose in queste settimane a Milano, Firenze, Roma e in altre città contro le nuove restrizioni del governo contro il Covid-19 sarebbero state organizzate perlopiù da poche centinaia di violenti, tra ultras degli stadi, ragazzi di baby gang urbane e appartenenti alla criminalità, esponenti di Forza Nuova e di altre frange dell’estrema destra, affiancati da alcuni attivisti no mask: un buon identikit dei simpatizzanti che gravitano nelle reti di propaganda dell’estrema destra di Bannon.
Si tratta, in ogni caso, di una netta minoranza della popolazione italiana, un sottobosco residuale ed estremista delle folle anti-sistema che qualche anno fa riempivano le piazze. Anche a Napoli, dove la sofferenza sociale è maggiore, sono stati individuati e fermati degli infiltrati violenti tra una maggioranza di dimostranti pacifici. Il grosso dei comuni cittadini sta aprendo gli occhi: si lamenta dei lockdown, ma capisce che non può affidarsi a leader dell’opposizione come Meloni e Salvini, che si limitano ad attaccare il premier Giuseppe Conte per i Dpcm a loro dire dittatoriali e che “scavalcano il parlamento”, chiedendo genericamente di evitare chiusure ma senza proporre alternative concrete. Di tutto questo gridare a vuoto i due leader potrebbero essere chiamati a pagare il conto già alle prossime elezioni Politiche: come negli Stati Uniti e nel resto d’Europa, il virus sta distruggendo tutti gli slogan di una politica basata su slogan, mistificazioni e emergenze inventate, spazzata via nell’ultimo anno dal peso della realtà.