Nel 1996 un semisconosciuto filosofo della destra radicale americana, Samuel Francis, indirizzò il breve saggio From Household to Nation a Pat Buchanan, per tre volte candidato alle primarie repubblicane con una piattaforma di nazionalismo isolazionista. La tesi di Francis era che la sinistra aveva vinto la guerra culturale e che la destra, per risollevarsi, avrebbe dovuto ispirarsi alla strategia gramsciana dell’insurrezione contro egemonica, ricomponendo l’identità culturale della classe media bianca impoverita dalla globalizzazione. Buchanan è stato ricettivo ai consigli di Francis, tanto che alla convention repubblicana del 1992 aveva avvertito di una “guerra culturale per l’anima dell’America”. Ma il miglior allievo di Francis è stato Donald Trump più di vent’anni dopo.
Ma cos’è una guerra culturale? Il concetto è stato portato al grande pubblico all’inizio degli anni Novanta dal sociologo statunitense James Davison Hunter. Una guerra culturale è ben più che un disaccordo politico tra fazioni. È uno scontro di natura morale tra due visioni inconciliabili sul significato stesso di convivenza civile in una nazione, dove ciascuna interpreta l’altra come una minaccia esistenziale per la propria sopravvivenza. Le guerre culturali si combattono su varie linee di frattura: negli anni Sessanta e Settanta erano l’aborto e l’inserimento delle donne nel mercato del lavoro; negli anni Novanta e Duemila i matrimoni gay e la globalizzazione multiculturale; oggi le questioni di genere, il razzismo e l’immigrazione. Le guerre culturali sono quindi “punti di rottura inevitabili in un processo di cambiamento culturale”, spiega Bobby Duffy, del King’s College di Londra.
Se, tuttavia, negli scorsi decenni erano combattute all’interno della classe bianca e istruita e riguardavano la secolarizzazione della società, osserva Hunter, oggi il contesto è molto cambiato. Quando la destra mette in guardia dalla cancel culture o dall’ideologia woke, la posta in gioco è più alta della teologia biblica dei conservatori religiosi. A essere in pericolo è la libertà di espressione, l’identità nazionale e il diritto stesso a vivere in una democrazia. La guerra ha assunto una dimensione totalizzante. Perciò, a marcare la differenza è soprattutto la retorica apocalittica. Per la destra perdere la guerra culturale significa estinguersi. Non c’è compromesso possibile.
Il fatto che non sia stata trovata una definizione condivisa di “cultura della cancellazione” o di “risvegliato” (woke, termine della comunità afroamericana ampliatosi per designare chi è vigile e consapevole delle ingiustizie sociali) non è un ostacolo. L’ambiguità avvantaggia la destra perché converte questi significanti vuoti nella sintesi di tutto ciò che non si sopporta dei codici linguistici e comportamentali della sinistra. Sondaggi condotti tanto negli Stati Uniti quanto nel Regno Unito mostrano infatti che pochi hanno familiarità con queste espressioni e molti non saprebbero nemmeno se prendere woke come un insulto o un complimento.
In questo senso, il dibattito italiano sulla questione è fuori fuoco, come dimostrano alcuni episodi dei mesi scorsi. Lo scrittore Raffaele Alberto Ventura si sforza di provare perché, a dispetto delle decostruzioni dei debunker, esiste eccome una cultura della cancellazione, Enrico Mentana la paragona ai “roghi dei libri del nazismo”, Davide Piacenza di Wired, a proposito delle accuse di transfobia rivolte a Chimamanda Ngozi Adichie, tra le più ammirate scrittrici femministe, sentenzia che è “un problema vero” e non un inganno della destra, come invece suggerisce il collettivo Valigia Blu. Proprio il caso dell’autrice nigeriana, stigmatizzata da una sua ex allieva, la scrittrice non binaria Akwaeke Emezi, rivela la cancel culture per quel che è: niente più che la diatriba narcisistica di una minoranza di intellettuali. Il comune cittadino, come abbiamo visto, ne è ignaro e vive tranquillamente senza subirne le conseguenze. Non c’è insomma nessuna “maggioranza che costringe sé stessa a essere silenziosa”, come vorrebbe far credere Guia Soncini. Ci sono soltanto da un lato l’autoreferenzialità dei giornalisti e degli intellettuali, presuntuosi nel generalizzare polemiche che riguardano solo il loro ristretto angolo di mondo, e dall’altro le strategie comunicative delle destre, che terrorizzate da un inesistente pensiero unico della sinistra dichiarano la guerra culturale per scatenare il panico morale.
Per capire cosa distingue l’attuale dibattito da quello degli anni Novanta sul “politicamente corretto”, dobbiamo tornare negli Stati Uniti. A partire dagli anni Settanta, i repubblicani sono diventati il partito della resistenza culturale alla modernità, con una svolta reazionaria che ha trasfigurato il proprio elettorato in un segmento omogeneo per cultura, identità e fede. La sindrome di accerchiamento dei bianchi protestanti coltivata dal partito per decenni ha raggiunto l’apice sotto Trump, con gli spin doctor repubblicani che demonizzano i democratici come traditori dei valori nazionali e prefigurano un futuro dittatoriale in cui tutti correranno il rischio di essere spazzati via dal futuro e dall’identità del Paese.
La strategia è efficace per diverse ragioni. Perry Bacon di FiveThirtyEight ne elenca cinque. Primo, consente ai repubblicani di discriminare i diritti delle minoranze senza opporvisi in modo esplicito, ma lasciando intendere che si stia esagerando e che la maggioranza sempre più relativa, quella bianca, abbia soltanto da perderne. Secondo, unifica la destra mentre divide la sinistra. Terzo, rinnova l’infrastruttura politica del partito. Quarto, introduce l’idea che la sinistra sia troppo pericolosa per gestire il potere e che, pur di fermarla, siano giustificati estremismo e violenza. Quinto, può essere decisiva per convincere gli indecisi e vincere negli Stati in bilico. Ed Kilgore del New York Magazine aggiunge infine un sesto motivo: permette ai repubblicani, le cui pulsioni fasciste sono sempre più accentuate, di dipingersi come vittime di una persecuzione.
La prima linea della guerra culturale sono i media, con quotidiani come il New York Post e Breitbart, ma soprattutto la televisione. I conduttori di Fox News plasmano una realtà alternativa di teorie del complotto che stereotipa e ridicolizza le posizioni della sinistra, fino a toccare vette surreali. Come quando il noto commentatore politico Tucker Carlson, sulla base di una lettera anonima inviata a maggio alla rivista Slate, in cui una donna si lamentava dell’ipocondria durante il sesso del marito vaccinato, si è indignato contro l’ossessione della sinistra per le mascherine, inserite fra i punti di frattura della guerra culturale. L’effetto risata non va sottovalutato: l’obiettivo è la caricatura degli avversari, mostrarli come minacciosi comici involontari, fanatici che vorrebbero imporre alla società le loro fobie. La campagna paranoica è stata esportata con successo in Europa, in primo luogo nel Regno Unito, dove, nel clima delle tensioni identitarie post-Brexit, Boris Johnson ha dichiarato la “guerra ai risvegliati” per tutelare la libertà di pensiero nelle università e contrastare la revisione del passato colonialista britannico. Anche qui i media ingigantiscono episodi insignificanti, come nel caso delle treccine bantu della cantante Adele durante il carnevale di Notting Hill dell’agosto 2020. L’ultimo arrivato nella guerra culturale è Gb News, canale anti-woke lanciato a giugno da magnati pro-Brexit che ha esordito con più spettatori di Bbc News e Sky, nonostante il boicottaggio pubblicitario di alcuni grandi marchi.
In Svezia c’è invece Riks, canale televisivo dei Democratici Svedesi (partito di estrema destra) che si candida a guidare la guerra culturale nella prossima imminente campagna elettorale. Il suo volto principale è Eva Vlaardingerbroek, giovane olandese soprannominata “la principessa ariana” per la sua bellezza e i trascorsi nel Forum per la Democrazia, il partito del nazionalista bianco Thierry Baudet. Vlaardingerbroek conduce una trasmissione in lingua inglese dal titolo programmatico Parliamone, in cui “smonta” le false rappresentazioni che minaccerebbero la grandezza dell’Europa: femminismo, ideologia gender e capitalismo woke. La sua consacrazione internazionale è arrivata a giugno con l’invito di Tucker Carlson a Fox News, dove ha denunciato il boom dei crimini degli immigrati in Svezia.
Ma il Paese europeo in cui questo tipo di retorica ha fatto più presa è la Francia. Su CNews, emittente ultraconservatrice dell’imprenditore e azionista di maggioranza di Vivendi Vincent Bolloré, polemisti come Eric Zemmour accendono la fantasia di un’estrema sinistra che impianta in Francia il germe delle guerre culturali statunitensi. Ospiti e conduttori “dissezionano microscandali”, dall’insegnamento della scrittura inclusiva nelle scuole alle opere di Molière insidiate dalle femministe, per rappresentare un Paese in cui i valori fondativi repubblicani di laicità e libertà di espressione sono assediati dagli attentati islamisti, dall’islamogauchismo e dagli epigoni francesi della sinistra woke statunitense. La strategia paga: CNews ha superato gli ascolti della tv pubblica, mentre Zemmour, già condannato per odio religioso contro i musulmani, parla ormai come un candidato alla presidenza, mentre recenti sondaggi lo danno appaiato ai Verdi, con un consenso del 5,5%.
In Italia il provincialismo dei media fa sì che la guerra culturale dei repubblicani statunitensi sconti un ritardo temporale, essendo spesso mediata dai tabloid conservatori britannici che danno una veste rispettabile al sensazionalismo alla Fox News. Il terreno è comunque fertile. Le redazioni giornalistiche sono spesso impreparate per la verifica delle fonti e si lasciano sedurre dalla notiziabilità di notizie palesemente assurde, a patto di riflettere un istante prima di deciderne la pubblicazione. Inoltre, la narrazione di una sinistra oscurantista e censoria, così come avvantaggia i repubblicani negli Stati Uniti, favorisce le destre italiane, che si presentano come paladine della libertà di espressione, nonostante il loro dichiarato appoggio ai regimi illiberali di Ungheria e Polonia, oltre che alla Russia di Putin, al Brasile di Bolsonaro e alla presidenza statunitense targata Trump. Questi fattori si innestano nelle linee di frattura di una guerra culturale all’italiana, dal ddl Zan allo Ius soli fino alla retorica anti-immigrazione, già declinata secondo gli schemi apocalittici della “grande sostituzione”.
In questo contesto, prestarsi al dubbio filosofico sulla concretezza o meno della cancel culture è esercizio di inutile pedanteria. Certo, finché ci saranno movimenti politici, esisteranno sempre distorsioni di parte che faranno a gara di purezza ideologica. Ma il punto è stabilire quanto le contestazioni della Akwaeke Emezi del momento incidano sulla vita di tutti. La risposta è meno di zero. Giornalisti e intellettuali non si scagliano, allora, contro la cancel culture perché hanno a cuore la libertà di espressione. Spesso è più una decisione per tutelare il loro presunto privilegio di dispensare opinioni senza la temporanea scocciatura di una shitstorm sui social. Francamente una motivazione debole per farne un problema universale. L’unico risultato che ottengono è diventare megafono della fittizia guerra culturale delle destre e spianare loro la strada verso l’egemonia, smuovendo quella “maggioranza esausta” non ancora polarizzata. Fare dell’estrema destra l’area politica del buon senso sarà il loro involontario capolavoro.