Qualche giorno fa, facendo zapping, ho beccato Matteo Salvini su Rete 4 da Nicola Porro. Il mio lato autolesionista, quello che ancora non mi ha fatto rimuovere il tasto 4 dal telecomando, mi ha costretto a non cambiare canale. Se Nanni Moretti parlava allo schermo con D’Alema, io ho fatto lo stesso con Salvini. Tutti i suoi discorsi sembravano quelli del leader di un partitino al 5% all’opposizione. Posto che come percentuali, visti i tempi che corrono, è probabile che Salvini sia vicino a raggiungere davvero quei numeri, mi sono poi ricordato che stavo ascoltando un ministro della Repubblica. “Siete voi al governo, Matteo”, è stato il mio equivalente di “D’Alema, dì qualcosa di sinistra”. Eppure lui continuava a parlare dei problemi dell’Italia come se al potere ci fosse un’entità sconosciuta che per dispetto o incapacità non era in grado di risolverli. Spesso lo fa anche Meloni durante i comizi o le interviste, aggiungendo una pratica cara anche a Salvini: screditare non soltanto l’avversario politico, ma pure gli elettori che hanno votato a sinistra o che in generale non hanno votato la destra. Un po’ come quando Berlusconi definiva coglioni gli elettori della sinistra, ma in modo meno esplicito e più subdolo. Quando si è all’opposizione non dico che sia fisiologico farlo, ma nel clima caciarone della Seconda Repubblica è ormai una prassi bipartisan, inasprita ancor di più dall’arrivo dei social e dal grillismo della prima ora, quello che prevede che il nemico politico venga “asfaltato”. Il problema è che abbiamo al governo delle forze politiche che ancora non si sono accorte di non essere più all’opposizione, e a farne le spese è l’intero Paese.
Dall’avvento della Seconda Repubblica, e quindi di Berlusconi, il dualismo governo-opposizione ha mutato i suoi connotati. Forse non è un caso se da quel momento nessun partito o coalizione politica sia riuscito a confermarsi alla successiva tornata elettorale. Dal 1994 a oggi, il vincitore di un’elezione ha sempre perso a quella successiva. Abbiamo avuto, in ordine: Berlusconi, Prodi, Berlusconi, Prodi, Berlusconi, la vittoria di Pirro di Bersani, M5S-Lega, Meloni. Il punto è che l’opposizione, in Italia, è uno stato mentale. Non te la togli più di dosso. D’altronde è il mestiere più facile del mondo (tranne per il PD): fai promesse irrealizzabili, ringhi contro il governo in carica, aizzi il popolo contro chi detiene il potere e dai l’impressione di poter ribaltare tutto. Come a dire: “Se tu, cittadino, stai vivendo una vita di stenti e fatichi ad arrivare a fine mese, la colpa è del governo”. Quando poi il governo sei tu, c’è lo spaesamento di chi si chiede con chi prendersela adesso e quali altri nemici immaginari creare.
Ricordo l’arrivo in pompa magna dei grillini al governo nel 2018. Un esercito di gente a caso votata su un blog e catapultata tra gli scranni del potere. Furono rapidamente mangiati dagli alleati di governo leghisti, con Salvini a rosicchiare milioni di voti e a raggiungere risultati clamorosi alle Europee, prima della sbornia da mojito. I grillini, barricaderi per natura, non avevano idea di cosa fare in un luogo che non fosse l’opposizione. Oggi è più o meno lo stesso. Se Lega e Forza Italia ormai vedono il 10% con il binocolo e, per la legge del contrappasso, si sono fatti succhiare tutti i voti da Meloni, Fratelli d’Italia porta avanti la tradizione del partito di governo che in teoria dovrebbe rappresentare tutti gli italiani – utopica funzione legata al presidente del Consiglio e al governo stesso – e che invece utilizza le proprie corsie preferenziali per prendere in giro l’opposizione, che siano partiti o cittadini contrari alle azioni di governo. Basta assistere a qualsiasi comizio di Meloni per rendersene conto, anche se il mio consiglio è fare altro piuttosto che stare davanti a uno schermo e ascoltare una presidente del Consiglio che percula chi non la pensa come lei: iscriversi a un corso di pittura, fare giardinaggio, riguardarsi tutte le ottocento stagioni di Lost. Insomma, ci sono modi migliori per spendere il proprio tempo.
Lo sappiamo bene: è un diversivo. Quando un partito incendiario arriva al governo e non riesce a mantenere le promesse impossibili fatte in campagna elettorale, la migliore strategia è quella di deviare l’attenzione su altro. E per altro si intende di solito tornare ai tempi felici quando all’opposizione si gettavano palate di letame sugli avversari. A livello istituzionale è una carognata, ma spesso chi costruisce una propaganda sull’insulto non è di certo avvezzo al buoncostume istituzionale e alle regole scritte e non scritte della democrazia. Anche perché è difficile spiegare al proprio elettorato che quella del blocco navale era in realtà una sparata irrealizzabile – per fortuna – e che il proposito di mandare a casa l’Europa e l’Occidente dei “cattivi burocrati” si è trasformato in un bacetto sulla testa di padre Biden e nei sorrisoni con Von der Leyen. Meloni, a differenza di altri suoi predecessori e attuali compagni di governo, non è una sprovveduta: ha capito sin dal primo giorno che per non isolarsi aveva bisogno di allacciare i rapporti con quell’establishment internazionale che un tempo criticava. Quindi fuori dai confini ben venga l’agenda Draghi, tanto l’impeto conservatore e destrorso viene sfogato sul territorio nazionale con favori agli evasori, diritti negati, tagli alla sanità e minorenni presi a manganellate dalla polizia.
Anche in quest’ultima vicenda, il governo si è comportato da forza d’opposizione. Invece di condannare una violenza inaccettabile – è dovuto intervenire il presidente della Repubblica per mettere una pezza e colmare i silenzi del governo – la destra ha fatto scudo attorno alle forze dell’ordine, con alcuni ministri – Salvini su tutti – a prendersela con alcuni dei suoi nemici preferiti: i centri sociali. Termine che più generico non potrebbe esistere. Salvini per centri sociali immagina – e nel suo elettorato sempre più esiguo l’immagine cementificata è ormai questa – delle zecche rosse che ogni mattina devono decidere se passare la giornata a farsi di canne e suonare i bonghi o attaccare la polizia. Ovvero il prodotto dell’immaginazione della destra. Salvini dovrebbe sapere che esistono centri sociali di sinistra, di destra, anarchici, apolitici e di ogni tipo. Tecnicamente persino CasaPound è un centro sociale. Però è più comodo inventarsi una narrazione e dipingere dei manifestanti, molti dei quali probabilmente non hanno mai messo piede in un centro sociale e sono dei quindicenni con lo zainetto in spalla, come un pericolo pubblico. Anche quando l’unico pericolo, in queste occasioni, è rappresentato dai metodi violenti dei poliziotti che, protetti dalla divisa e dalle armi, picchiano dei ragazzini indifesi.
Il governo deve dunque inventarsi dei modi per affrontare l’insoddisfazione di un elettorato che si sta sempre più rendendo conto che le aspettative sono state tradite. Essendo un elettorato fluido, composto prevalentemente da cittadini che “prima o poi li provano tutti”, come dimostrano le elezioni degli ultimi trent’anni, non c’è nemmeno quella fidelizzazione attorno a un partito necessaria per rimanere ugualmente a bordo. E Meloni non può neanche lamentarsi di questa ideologia delle banderuole, perché in sua assenza non sarebbe mai arrivata al potere. C’è l’illusione che il nome nuovo possa sempre rivoluzionare tutto, che siano populisti presi dal web, neofascisti, pseudo liberali o residuati bellici della Democrazia Cristiana. Il manto dorato dell’opposizione è una bolla destinata inevitabilmente a scoppiare. Ogni presunto rottamatore ha subito la stessa sorte: Renzi, Di Maio, Salvini, e probabilmente negli anni anche Meloni. C’è una luna di miele iniziale, poi arriva il declino quando i cittadini si accorgono che il cambiamento non c’è stato, e in caso è avvenuto in peggio. E chi ha votato Meloni l’ha fatto per diversi motivi: i destrorsi duri e puri chiedevano la lotta al migrante e si sono trovati con gli sbarchi triplicati; i “turisti elettorali” hanno messo una crocetta sperando di poter cambiare la propria condizione economica e sociale, ma aprendo il portafoglio hanno trovato lo stesso vuoto di prima; gli antieuropeisti o antiatlantisti volevano metaforicamente, e non solo, Bruxelles in fiamme e assistono al mantenimento dello status quo.
Come risultato abbiamo un governo che non ha apportato alcun cambiamento significativo, se non nelle nefandezze tipiche della destra, ovvero quel fascismo di rimando che comporta il braccio duro contro i più deboli e la mortificazione del ruolo della donna, e nelle eredità berlusconiane come i favori ai furbetti che hanno più di una ritrosia a pagare le tasse. Ci sono poi le questioni che dovrebbero interessare ai cittadini ma che sembrano passare sottotraccia. Ad esempio il deficit: 7,2% mentre il governo aveva previsto il 5,3%. Possono sembrare numeri insignificanti, ma parliamo di miliardi di euro che graveranno sulle nostre tasche e sui servizi pubblici. Eppure nessun membro del governo ha detto: “Scusate, abbiamo sbagliato e stiamo sforando con il deficit”. Se gli stessi politici fossero stati all’opposizione avrebbero invocato i forconi in strada. Siamo però un Paese dalla memoria corta, e quando anche questa bolla esploderà cercheremo un altro Messia, il più feroce all’opposizione, quello che sarà in grado di inventarsi le proposte più accattivanti. Ovviamente irrealizzabili. Arriverà al governo comportandosi come se fosse ancora all’opposizione. Siamo finiti in un loop, riviviamo la stessa scena dal 1994 e non c’è all’orizzonte una via d’uscita. La verità è che la Seconda Repubblica non è finita nemmeno con la morte di Berlusconi, essendo ancora in vita il berlusconismo, e il governo in carica è l’ennesimo figlio di quella nidiata. Eppure l’abbiamo votato “noi”, e la democrazia prevede anche il paradosso di forze antidemocratiche al potere.