Mario Draghi non è il messia. Ma è osannato così da una politica che ha abdicato al suo ruolo. - THE VISION

La tendenza degli italiani ad attendere il salvatore della Patria in grado di risolvere tutti i loro problemi è una costante nella narrazione politica del Paese. Più che una ricerca affannosa di un leader si tratta della sindrome del messia, e gli stessi politici hanno calcato su questo tema, presentandosi via via come l’avvocato del popolo, il capitano o il rottamatore. Se non è il politico di turno ad autoproclamarsi il santo della nazione, sono i media a farlo per lui. L’ultimo esempio di questa tendenza all’agiografia è Mario Draghi.

Il successore alla presidenza del Consiglio di Giuseppe Conte è il meno colpevole in questa situazione. Da quando è stato convocato da Mattarella al Quirinale per ricevere l’incarico di formare un governo, i giornali hanno saputo spingersi molto oltre la sua biografia e l’analisi sul futuro esecutivo. Dall’analisi sulle sue cravatte al ritratto della riservata moglie che vive nell’ombra, dalle interviste al vecchio compagno di liceo Giancarlo Magalli al suo Whatever it takes del giugno 2012, la vita di Draghi è stata scandagliata con una morbosità tale da mettere in secondo piano qualsiasi riflessione politica, tra cui il fatto che chi ora si troverà a decidere come utilizzare i fondi del Next Generation Ue destinati all’Italia fa parte dello stesso gruppo di tecnici che ha deciso nei mesi scorsi a chi distribuirli tra gli Stati membri. La principale, quella che dovrebbe far impallidire tutti i partiti politici, si basa su un semplice assunto: l’arrivo di Draghi rappresenta il tramonto di una classe dirigente ormai costretta a rivolgersi a terze parti quando le incomprensioni raggiungono un punto critico. Una classe politica che al posto di trovare umiliante l’essere commissariata per evidente incapacità dell’intero sistema che rappresenta, si abbandona a dichiarazioni entusiaste quando questo succede.

È una colpa che devono assumersi tutte le fazioni politiche. Quella della sinistra riguarda la metamorfosi della propria identità, soprattutto per quanto riguarda il globalismo. Le proteste durante il G8 di Genova del 2001 vertevano su temi che si pensava potessero appartenere alla sinistra, come quelle dei no-global ispirate dal libro No logo di Naomi Klein. Adesso la situazione si è ribaltata, con il centrosinistra italiano vicino a posizioni neoliberiste e la destra che si fa portavoce di una parte dei messaggi anti-globalisti. Per quanto Draghi sia uno degli italiani più rispettati all’estero, adesso la sinistra sta appoggiando le idee che storicamente non le sono mai appartenute.

Su queste meccaniche politiche il giudizio non è su Draghi, sulle sue competenze e la sua rispettabilità, ma su quello che rappresenta e su cosa significa appoggiarlo. Matteo Salvini ha basato gran parte della sua propaganda demonizzando le istituzioni europee e le banche internazionali, mentre ora si dice disponibile a sostenere uno dei più autorevoli esponenti di questo sistema. Il M5S anti casta e pronto a spazzare via i “poteri forti” ora chiede il permesso su Rousseau alla sua sempre più rosicata base per appoggiare il futuro esecutivo Draghi.

A stridere non è soltanto il motivo per cui Draghi è stato incaricato di formare il governo da Sergio Mattarella, ma il modo in cui questa transizione è avvenuta. Matteo Renzi in questi giorni si vanta di aver creato un piano per salvare gli italiani e di essersi ispirato a Machiavelli. Se alcuni membri dell’ultimo esecutivo non brillano per preparazione e competenza,  muoversi dietro le quinte per delegittimare la politica stessa non fa altro che indebolire ancora di più la classe dirigente, spingendo sempre più in basso il livello medio della sua qualità. Se il fine non giustifica i mezzi, Renzi deve interrogarsi sulle proprie azioni a prescindere dai risultati che il governo Draghi porterà a termine. Anche perché l’Italia ha già sperimentato la parabola discendente del “salvatore”.

Matteo Renzi

Avvenne qualcosa di simile con l’arrivo di Monti nel novembre 2011. La politica si defilò di fronte al rischio default e ai disastri economici dell’ultimo governo Berlusconi. Fu anche un atto di grande irresponsabilità: tutti sapevano che erano necessarie mosse drastiche per salvare le casse dello Stato, ma nessuno era disposto a giustificare ai suoi elettori eventuali misure rigide e impopolari. Delegarono quindi l’incombenza a un tecnico, un professore di economia rispettato che impose al Paese un periodo di austerità e scelte impopolari. Un grande assist alle forze populiste, le stesse che sono cresciute in modo costante a tutte le consultazioni elettorali fino a prendersi il governo del Paese con le politiche del 2018. 

Invece di aggrapparsi al messaggio salvifico del singolo, sarebbe necessario un lavoro sulla formazione di una classe dirigente adeguata, e quindi sulla riscoperta del politico come mestiere, e non come insulto. Il M5S ha fatto la sua fortuna sul principio dell’antipolitica, e in molti tratti del salvinismo c’è la retorica dell’uomo del popolo distante dai palazzi del potere, una forzatura che ignora la realtà ma che fa comunque presa su un elettorato sensibile a due tipologie di leader: l’umano e il divino. Il primo acquista punti fingendo di essere “come loro”, e dunque si mostra mentre va a fare la spesa, mentre gioca con i figli o compie gesti da cittadino qualunque. Nel caso dei grillini entra il gioco anche il pauperismo, e la vicinanza al popolo si traduce in un parallelismo economico altrettanto ingannevole tra politico e cittadino. Il leader divino invece è colui che trascende il rapporto tra eletto ed elettore, in quanto figura superiore idealizzata dai media, e quindi, di riflesso, dai cittadini. Spesso le due figure si sovrappongono, come quando Berlusconi indossava la maschera del presidente operaio o Mussolini si faceva immortalare nei campi a tagliare il grano. Draghi rientra certamente tra i leader divini, perché politica e stampa hanno deciso così, senza chiedergli nemmeno il permesso.

Mario Draghi e Mario Monti

Sarà curioso vedere seduti agli stessi tavoli Lega e Pd, grillini e berlusconiani, tutti uniti nel nome del supereroe invocato per risollevare le sorti del Paese. Alle prime crepe dell’esecutivo, così come avvenuto ai tempi di Monti, c’è da aspettare che i partiti tentino con ogni mezzo di defilarsi e di rivendicare una distanza da una tecnocrazia che loro stessi hanno contribuito a legittimare. Dall’esterno, invece, l’ala del M5S che fa riferimento ad Alessandro Di Battista tornerà con ogni probabilità a ruggire e Giorgia Meloni potrà compiacersi di non aver appoggiato i banchieri europeisti sporchi e cattivi. La speranza è che Draghi possa mettere in ordine per lo meno i conti italiani, ma a prescindere dall’esito della sua esperienza al governo è necessaria per tutti i partiti una riflessione sulla direzione che ha preso da diversi anni la politica, ovvero un circolo vizioso in cui la tendenza ad assecondare costantemente le pulsioni del proprio elettorato prevale sulla necessità di guidare un Paese.

Se Draghi rappresenta la nemesi delle narrazioni dei partiti che lo appoggiano, è anche vero che l’appiattimento ideologico ha ridotto le distanze tra gli schieramenti in campo. Il nuovo compromesso storico non è più la convivenza, forzata o meno, tra partiti, ma la tolleranza di un attore esterno in grado di tracciare la rotta perché il contesto lo richiede. Crolla l’economia, chiamiamo Monti; crolla l’Italia, chiamiamo Draghi. E lo sforzo di dare un tocco politico al nuovo governo è solo un’operazione di facciata. La realtà è che lo stesso Presidente della Repubblica ha lasciato intendere un’insofferenza nemmeno troppo mascherata verso l’attuale situazione. La politica è morta, ma dobbiamo ripartire proprio dalla politica e da chi la fa per curare la democrazia del nostro Paese. Un eterno commissariamento non è umiliante solo per i politici, ma anche per ogni cittadino che è chiamato a votarli.

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