C’è una foto molto famosa di Aldo Moro su una spiaggia d’estate, seduto su una sdraio con indosso giacca e cravatta. Siamo nei primi anni Sessanta, insieme a lui c’è la figlia Agnese, e l’immagine austera e composta di uno dei fondatori della Democrazia Cristiana, nonché protagonista, anche nelle vicende più oscure, della storia del nostro Paese, è diventata col tempo simbolo di dignità e gravitas ormai perdute. Non so dire se fosse meglio o peggio, dal momento che non ero in vita quando i politici andavano al mare con il completo, ma di certo questa idea di alterità che riguardava la classe dirigente, negli ultimi trent’anni circa, si è completamente capovolta. Se un tempo la distanza tra rappresentante e cittadino era considerata un valore, almeno in termini di comunicazione, quando non esisteva il concetto di marketing applicato alla politica ma al massimo quello di propaganda, nel nostro presente tutto ciò si è ricalibrato sul senso opposto. Da questo punto di vista, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni non ha mai fatto mistero della sua rivendicata genuinità, nonché vicinanza e appartenenza a un universo comunicativo pop. Una lezione che, probabilmente, nell’ambito della destra italiana, ha un’origine ben precisa.
Ci sono infatti un nome e un cognome che si possono identificare per dare un inizio a questa tendenza, anche se ridurre tutto solamente a Silvio Berlusconi e alla sua operazione partito-azienda è una visione parziale. La sua campagna elettorale fatta dagli agenti di Publitalia, l’inno, i colori, la brand-identity di Forza Italia, sono stati innegabilmente l’inizio di una nuova concezione della politica italiana, ma si trattava di una rivoluzione che toccava molti altri punti cardine della nostra storia recente, a partire dalle conseguenze dell’enorme scandalo di Mani Pulite e dal crollo della Prima Repubblica, ossia l’inizio della cultura anti-partitica. Ciononostante, è chiaro che siano gli ultimi trent’anni, specialmente con l’approdo di nuove tecnologie come internet, ad aver dato una spinta in avanti al concetto di politico intrattenitore e di politico che affonda le mani nella cultura pop. Del resto, basti pensare che, oltre al Cavaliere, siamo passati anche da Beppe Grillo, non un imprenditore dell’industria mediatica e dell’intrattenimento ma un protagonista di quel settore.
Per alcuni il vero erede di Berlusconi era Matteo Renzi. Lo ha detto anche Francesca Pascale, storica compagna del presidente, e il suo passaggio dal Pd al centro dimostra che, in termini di obiettivi politici, le loro vedute non fossero così distanti. Ma per quanto riguarda la parte comunicativa, escluso gli slogan iniziali sul concetto di rottamazione e qualche apparizione mediatica curiosa come quella sugli schermi di Canale 5 ad Amici di Maria De Filippi, Renzi non è stato in grado di creare la patina di vicinanza e simpatia a cui invece chiaramente ambiva. Un discorso simile, anche se infinitamente più tragico, si può fare per Matteo Salvini e per la sua iper-narrazione social che ha messo in pratica negli ultimi dieci anni di presenza politica. Se Berlusconi era l’imprenditore di successo, la figura a cui l’uomo medio doveva ambire in termini emulativi, il latin lover, colui che disponeva di “venti case”, per para-citare una sua famosa affermazione, Salvini punta nella direzione opposta. La sua strategia di “normalizzazione” delle figure istituzionali è un continuo sottolineare quanto la sua sia una vita normale, fatta di piccole cose: il cibo onnipresente, la dieta, i figli, i divertimenti dozzinali, i programmi di Barbara D’Urso, che frequentava quando la presentatrice era ancora sulla cresta dell’onda mediatica nazionale. L’uomo del Papeete e del mojito, del buonsenso popolare in stile Vannacci per cui ogni manifestazione di progresso diventa sintomo di un “mondo al contrario”, delle sagre e delle Madonne, non racconta barzellette ma fa da specchio per il suo elettorato, sono come voi e faccio le stesse cose che fate voi, né peggiore né, con orgoglio, migliore. Anche questo è un modo di brandizzare la politica, anche questa è una conseguenza della disintermediazione del presente e della perdita di verticalità della comunicazione: che si tratti di intrattenimento o di informazione il risultato è lo stesso, e così non è più strano avere un ministro che ci mostra la sua colazione, come se fosse un influencer.
Il discorso su Giorgia Meloni, invece, si fa più complesso, nonché più interessante perché molto più sottile ed efficace di quanto non lo sia stato rispetto ad altri esempi simili recenti, dal momento che tutti e tutte, oggi, ambiscono all’effetto opposto del completo di Aldo Moro in spiaggia. È come se, a differenza di Salvini e di Renzi, la nostra attuale presidente del Consiglio fosse riuscita a combinare la severità risoluta della vecchia politica con un linguaggio nazionalpopolare. Mentre Berlusconi puntava a creare un immaginario che di fatto ha creato, mettendo in pratica un’egemonia culturale che ancora persiste nonostante la sua morte, Giorgia Meloni sfrutta i simboli di un universo pop a suo vantaggio, cavalcando un’onda di simpatia e di affabilità che la rende molto più digeribile di ciò che in realtà rappresenta, ossia un partito di destra che sfocia nell’estremismo più nero e autoritario che l’Italia abbia mai visto da tempi che credevamo fossero lontani e archiviati.
Pensiamo, per esempio, al brano parodia-meme Io sono Giorgia, primo vero exploit pop della presidente del Consiglio. Non solo il remix ha creato un involontario inno del suo partito, ma la frase stessa del ritornello, quella presa da un suo discorso, è diventato il titolo della sua autobiografia e uno slogan tormentone di Meloni, quasi al livello di un “Meno male che Silvio c’è”. Stesso processo applicato alla campagna elettorale delle elezioni europee, dove bastava mettere il suo solo nome, “Giorgia”, come se fosse un’amica, oltre a un capo di governo. E se ai due Matteo della politica italiana è andata male, in termini di rilevanza mediatica, il fatto di dare per scontato che il cognome sia superfluo, è un gesto che dimostra non poca sicurezza.
Se già anni fa era facile vederla cavalcare un drago alla fiera del fumetto o se nella puntata de Il Testimone di Pif l’allora ministro della Gioventù ci mostrava la sua collezione di angioletti e pupazzi de Il signore degli anelli – niente di strano, il legame tra la destra italiana e l’immaginario tolkeniano è ben noto, pensiamo ai Campi Hobbit – oggi questo scambio tra il suo passato da ragazza dei forum, la “draghetta” di Undernet, e il suo presente da donna delle istituzioni non solo non si è interrotto ma si è intensificato. È lei stessa, per esempio, che cavalca l’onda di un meme diffuso su scala globale come la sua “ship”, termine per indicare una relazione fortemente spinta dal web, con il primo ministro indiano Melodi, postando una foto con tanto di hashtag #Melodi. Così come è sempre lei che, in un’occasione come quella del G7, non teme di farsi riprendere mentre balla la Pizzica, dopo aver lodato le doti culinarie del nostro Paese, tra panzerotti e mozzarelle.
L’esempio recente più lampante di questa strategia è senza dubbio la sua partecipazione al podcast di Diletta Leotta, Mamma Dilettante. La scelta di usare un contesto simile per raccontare una parte di sé intima e relatable, come si dice su internet, ha perfettamente senso, proprio per la sua abilità a maneggiare la materia pop. Non è l’armocromista di Elly Schlein, che diventa una boomerang di insulti e demagogia, non è il tatuaggio di Carlo Calenda fatto in occasione delle elezioni comunali – SPQR, sul polso – è un pop spontaneo, o almeno è brava a farlo sembrare così. Nel dialogo con Leotta, Meloni racconta delle sue fragilità, parola d’ordine per il self branding del presente. Racconta degli impegni che la separano da sua figlia, della chat dei genitori e del suo numero di telefono che è lo stesso dal 1998, della solidarietà tra le mamme a scuola e, soprattutto, del saggio di danza mancato per la sovrapposizione col G7. È una storia di vita comune, resa straordinaria dalla variabile del potere: la mamma di questa bambina non è diversa dalle altre, ma al contempo è diversa da tutte.
Giorgia Meloni, in sostanza, è arrivata dove molti attorno a lei speravano di approdare: ha fatto suo il ruolo di chi non solo riesce a governare con rigore e autorità, messaggi fondamentali di Fratelli d’Italia che punta tutto su valori tradizionali e preservazione dello status quo, ma anche con simpatia e benevolenza, con quella vicinanza che ha reso Salvini patetico, Renzi fuori luogo, e il Movimento Cinque Stelle un’operazione destinata a sgretolarsi per eccesso di “normalità”, come dimostrano i fatti. La lezione di Silvio Berlusconi sulla risata e sul divertimento, anche nelle sedi dove questi due elementi non sono necessari, è stata reinterpretata in favore di una presunta auto-ironia e bonarietà. Una narrazione che crolla nel momento in cui invece si parla di ciò che veramente fa questo governo nei confronti della comunicazione e della tolleranza verso la dissidenza, basti pensare all’operazione TeleMeloni, al trattamento riservato a giornaliste come Serena Bortone e a tutti gli altri esempi che ci dimostrano come l’obiettivo di Fratelli d’Italia sia tutt’altro che morbido e tollerante. L’aspetto più preoccupante di questa maggioranza, infatti, è che a indorare la pillola con podcast, faccette buffe, meme ricondivisi, balletti, spot elettorali dal fruttivendolo che fanno il verso al cognome della presidente come una gag da cinepanettone, non è “un partito di destra”, ma un partito che al suo interno ha, come hanno reso evidente le inchieste di Fanpage confermando ciò che era già risaputo, una vena reazionaria, intollerante, razzista e neofascista indelebile. E per quanto si possa colorare di rosa baby, il nero di questo governo, esplicito o tenuto nascosto con furbizia, è incancellabile.