Negli ultimi giorni l’attenzione mediatica è stata catalizzata dallo scontro che vede contrapposti Matteo Salvini e Giancarlo Giorgetti, impegnati in una lotta per la conquista dell’egemonia all’interno della Lega. Secondo alcune voci, si tratterebbe di una vera e propria disputa “ideologica”, che finirà per plasmare in profondità l’indirizzo del partito: da un lato, il segretario leghista vorrebbe mantenere intatto l’assetto attuale, fondato sul nazionalismo, sul rifiuto intransigente dell’immigrazione clandestina, su una patina di euroscetticismo e sulla demonizzazione di ogni istanza anche soltanto vagamente progressista. Dall’altra parte della barricata, Giorgetti viene presentato come un leader completamente diverso, quasi antitetico rispetto alla controparte salviniana: una sorta di eminenza grigia illuminata in grado di condurre il Carroccio tra le fila del Partito popolare europeo e tagliare definitivamente i ponti con la scomoda eredità del sovranismo. Il problema è che questa narrazione è totalmente distorta e lontana dalla realtà: al netto delle agiografie, Giorgetti rappresenta ciò che la Lega è sempre stata, un partito conservatore, antimeridionalista e dalla parte dei ricchi. La figura dell’intellettuale filo-europeista e disposto al dialogo che alcuni quotidiani gli stanno cucendo addosso cela tutti i tormentoni leghisti che abbiamo imparato a conoscere negli ultimi trent’anni, come la secessione padana, la “tutela della vita”, la retorica della “Roma ladrona” e dei meridionali nullafacenti e lo smantellamento dello stato sociale.
Per comprendere quanto sia ampia la distanza che separa la reale essenza politica di Giorgetti dai panegirici fuorvianti di alcun giornali, è sufficiente ripercorrere la sua biografia, a partire dagli anni della formazione giovanile: Giorgetti è cresciuto tra le fila del Fronte della Gioventù, la formazione giovanile del Movimento Sociale Italiano, antenato dell’attuale Fratelli d’Italia. La cultura politica in cui è stato immerso fin da ragazzo è quindi quella del neofascismo in salsa milanese, fino alla nomina come segretario provinciale del Fronte universitario d’azione nazionale (Fuan). Dopo essere stato eletto alla Camera dei deputati nel 1996 – nell’anno in cui il partito cambiò nome in “Lega Nord per l’indipendenza della Padania” – è diventato sin da subito il figlioccio prediletto di Umberto Bossi, che non ha mai perso occasione per elogiare le doti e le competenze del suo “delfino”, che ha spesso indicato come “Uno con la schiena dritta” (un amore pienamente corrisposto, dato che Giorgetti ha dichiarato che è stato proprio Bossi a insegnargli “il 99%” delle cose che sa”).
L’attuale ministro dello Sviluppo economico è a tutti gli effetti un “purista” dell’indirizzo originario della Lega Nord, e ha contribuito a plasmare alcuni tratti endemici del partito, come la totale noncuranza per parità di genere, diritti di minoranze e persone fragili. Giorgetti non ha mai perso occasione per fornire continue sponde a una visione conservatrice e oscurantista in tema di diritti civili e sociali: da sempre vicino ai movimenti pro-life, è stato il principale relatore della Legge 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita. Bersaglio di dure critiche in quanto antiprogressista e ideologicamente orientata, è stata definita a più voci come una “legge cattolica”, adottata allo scopo di tutelare principalmente l’embrione a discapito della donna. Alcune analisi hanno infatti evidenziato “uno sbilanciamento ai danni di quest’ultima sotto il profilo della tutela dell’embrione”, etichettandola come una “legge di lotta contro la pma” (una visione condivisa anche dalla Corte Costituzionale, che l’ha dichiarata parzialmente illegittima).
Questo anacronismo sui diritti civili ha rappresentato una costante nella vicenda politica di Giorgetti: nel 2018 fu tra i sostenitori della “Marcia della vita”, una manifestazione organizzata per chiedere l’abrogazione della legge 194 sull’aborto; una visione retrograda coltivata nel silenzio e ben al riparo dalle luci della ribalta, ma per nulla dissimile da quella dei vari Salvini, Adinolfi e Pillon. Un’altra causa per cui Giorgetti non ha mai smesso di spendersi è quella della secessione della Padania, ulteriore dimostrazione di come gli interessi che porta avanti non siano quelli di un non meglio precisato “popolo” italiano, ma della grande industria del Nord, che da anni reclama una maggiore autonomia e un drastico ridimensionamento del ruolo dello Stato.
Giorgetti è stato tra i protagonisti della stagione della retorica anti-meridionale, delle battaglie per l’autonomismo padano e dei referendum per l’indipendenza del Veneto, portati che si riflettono tuttora nella sua attività politica: ancora nel 2018, all’apice della trasformazione leghista in senso nazionalista, continuava a stigmatizzare gli elettori meridionali, definendoli come la “Parte d’Italia che non ci piace, ma con cui siamo costretti a governare” a causa del largo consenso acritico fornito al Movimento 5 Stelle, a sua detta dovuto soprattutto alla previsione del reddito di cittadinanza. Quello stesso reddito di cittadinanza che, da qualche settimana, sembra essersi trasformato per lui in un incubo in piena regola, come del resto qualsiasi misura di stampo assistenziale che possa far correre il rischio di aumentare le tasse delle ricche clientele che la Lega tutela. Quello della crociata contro il welfare è un leitmotiv ricorrente nei discorsi pubblici del ministro: lo scorso 20 settembre, durante un convegno dell’Unione Industriali a Napoli, Giorgetti ha colto l’occasione per schierarsi a favore del depotenziamento del welfare e contro quello che lui definisce lo “Stato mamma”, ossia “quel fenomeno tutto italiano dei giovani che restano in famiglia e si fanno mantenere fino a età avanzata”, di cui il reddito di cittadinanza sarebbe la massima dimostrazione; a maggio, quando Enrico Letta propose di portare al 20% l’aliquota dell’imposta di successione per le eredità superiori ai 5 milioni di euro per creare una “dote” da destinare ai 18enni dei ceti medio-bassi, decise di buttarla sull’ironia spicciola, liquidando la questione con una battuta di quart’ordine – “Dote e corredo gli facciamo pure!”.
Anche le sue presunte doti da statista navigato sono confutabili: nell’agosto del 2019, sfoggiando una certa “lungimiranza”, l’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio paventò l’ipotesi di depotenziare ulteriormente la medicina territoriale, in un periodo in cui la penuria di personale sanitario era già una problematica di primissimo rilievo: “È vero, mancheranno 45mila medici di base nei prossimi cinque anni”, disse, “Ma chi va più dal medico di base? Quelli che hanno meno di cinquant’anni vanno su internet, si fanno fare le autoprescrizioni, cercano lo specialista. Tutto questo mondo qui, quello del medico di cui ci si fidava anche, è finita anche quella roba lì”. Parole che oggi hanno un retrogusto tragicomico, con il Covid che ha messo in luce l’importanza che la medicina di base riveste per la salute di tutti noi, ma che forse spiegano parzialmente perché la sanità lombarda – quella della regione più popolosa e ricca d’Italia, governata da decenni dalla Lega con i suoi alleati – sia stata colta così in contropiede dagli sviluppi della pandemia. Anche la presa di posizione sulla medicina territoriale, infatti, è un ulteriore esempio dell’ossessione di Giorgetti per l’indebolimento dello stato sociale: la medicina generale rappresenta la spina dorsale del sistema sanitario nazionale, il primo punto di riferimento e di assistenza per i cittadini, ma negli ultimi anni è stata largamente sottofinanziata, mentre sono stati forniti moltissimi incentivi alla medicina specialistica, puntando soprattutto su un aumento delle convenzioni con strutture private. Come ha spiegato la docente di Programmazione, organizzazione e controllo nelle aziende sanitarie Maria Elisa Sartor, il risultato delle politiche leghiste in Lombardia è stato “Un sistema in cui la sanità privata, da semplice portatore dei propri interessi, è divenuta prima un partner paritario del pubblico, poi, di fatto, l’alter ego della Regione. E questo purtroppo è successo anche con l’appoggio di una componente dell’opposizione di sinistra”.
Giorgetti di “rivoluzionario” non ha proprio nulla: non è un conciliatore sofisticato, assomiglia di più a una specie di Umberto Bossi “postmoderno”, più sobrio e istituzionale nei modi e nella comunicazione, ma ugualmente classista e reazionario nella sostanza. Ha sempre mostrato una fedeltà cieca nei confronti dei valori fondanti del partito, che ritiene non negoziabili e che non ha mai pensato di rinnegare: sono i principi che ha assorbito sin dall’inizio della sua carriera politica, coerenti tanto con l’humus fascista della gioventù quanto con quella cifra classista e xenofoba che ha storicamente contraddistinto il Carroccio. Ecco perché, qualora la sua linea dovesse prevalere, per la Lega non si tratterebbe di una rivoluzione, ma al massimo di una restaurazione.