Conclusa la cerimonia di insediamento del 20 gennaio, 17 deputati repubblicani del Congresso hanno immediatamente risposto all’appello all’unità del neo presidente statunitense Joe Biden. In una lettera il gruppo si dichiara pronto a “lavorare insieme”, essendo chiaro che “dopo due impeachment, lunghe e trasversali investigazioni e, più recentemente, l’orribile attacco alla capitale della nazione, le divisioni di parte tra democratici e repubblicani non rendono servizio a un solo cittadino americano”. Undici di loro hanno sostenuto fino a pochi giorni prima la posizione infondata di Trump sui risultati elettorali dello scorso 3 novembre e i mai provati brogli. Durante la cerimonia di insediamento del 46esimo Presidente degli Stati Uniti, il vicepresidente uscente Mike Pence ha applaudito la nuova numero due Kamala Harris, mentre l’ex presidente repubblicano George W. Bush, seduto al Campidoglio accanto agli altri ex Clinton e Obama, ha passato il tempo a ridere e scherzare con il democratico radicale Jim Clyburn, il deputato afroamericano determinante per il trionfo di Biden alle primarie nel South Carolina. Bush avrebbe anche definito Clyburn “Il salvatore”, e chi conosce l’establishment del Grand Old Party (Gop) non si stupisce di una simile apertura; Trump durante le primarie del 2015 e gli ultimi 4 anni ha infatti diviso i repubblicani ancor prima di dividere gli Stati Uniti.
Sin dalla corsa presidenziale del 2015, l’apparato del Gop lo ha considerato un corpo estraneo al partito, tanto che l’ex presidente George W. Bush, tra i più ostili a Trump, con la moglie Laura e altri big repubblicani dichiarò che non avrebbe dato il suo voto né a Trump né a Hillary Clinton – il suo ex segretario di Stato Colin Powell votò addirittura la candidata democratica. Il defunto senatore ed ex candidato alla presidenza contro Barack Obama nel 2008 John McCain si astenne e poi diede il via a un’accesa battaglia anche personale contro Trump, al punto da salvare, nel 2017, l’Obamacare che aveva avversato per anni. Nel 2020 la lista degli anti-trumpiani del Gop si è allungata con l’ex candidato alle presidenziali Mitt Romney, che un anno fa votò a favore del suo primo impeachment. La vedova di McCain, Cindy, non ha fatto mistero che avrebbe scelto Biden per la prossima amministrazione (“Siamo repubblicani, ma prima di tutto americani”). A questa fronda interna Trump ha sempre rivolto messaggi coerenti con il suo stile politico e istituzionale: “L’ultima cosa di cui gli Stati Uniti hanno bisogno”, twittò nel 2015 contro Jeb Bush, fratello di George W., “è un altro Bush tonto”; McCain era un “truffatore”; Romney uno “stupido” e un “idiota presuntuoso”. Anche Biden, 78 anni e quasi 50 spesi tra il Congresso e la vice presidenza al fianco di Obama, sarebbe solo “sleepy”, un dormiente.
Trump ha mostrato la stessa delicatezza e diplomazia anche nel gestire i rapporti con il suo staff alla Casa Bianca e con i membri della sua amministrazione, silurati senza sosta in questi anni: il segretario della Difesa Jim Mattis ha resistito fino al 2018 prima di dimettersi, così come il suo successore Matt Esper che è stato licenziato nel 2020. Anche il primo segretario di Stato dell’era Trump, Rex Tillerson, nel 2018 ha ceduto il posto al più condiscendente Mike Pompeo. Nelle ambasciate e nella Casa Bianca, tra lo staff presidenziale, si sono susseguiti gli avvicendamenti, a causa delle continue divergenze con Trump. Questo bacino di disallineati nel Gop (e di loro collaboratori militari, dell’intelligence e amministrativi) erano pronti da tempo a rispondere al partito che il New York Times, già la scorsa primavera in campagna elettorale, chiamava dei “repubblicani per Biden”. Se adesso il nuovo presidente tenta da subito di ricostruire gli Stati Uniti nell’emergenza – sanitaria, economica, sociale –, il Gop è impegnato nel risollevarsi dopo quattro anni di gestione Trump. Non a caso, dopo l’attacco al Campidoglio da parte dei sostenitori più estremisti di Trump, una fronda considerevole di parlamentari repubblicani ha valutato se estromettere Trump dalla Casa Bianca prima del passaggio di consegne del 20 gennaio.
Lo stesso ex vicepresidente Pence, ultraconservatore e tra gli ultimi fedelissimi di Trump, ha temuto per la sua vita durante l’irruzione del 6 gennaio in Campidoglio e le diverse minacce di morte dei sostenitori di Trump ricevute prima e in seguito, scegliendo poi di difendere le istituzioni democratiche senza le ambiguità del presidente. Alla Camera di Washington, il 13 gennaio dieci deputati repubblicani hanno votato sì alla seconda procedura di impeachment aperta dai democratici per le responsabilità di Trump nei fatti al Congresso. Al Senato, dal 2021 a risicata maggioranza democratica, la sessione sull’impeachment è slittata dopo l’insediamento di Biden, tra la fine di gennaio e i primi giorni di febbraio. Ma anche dopo il passaggio di testimone il processo al Senato avrà un valore più che simbolico: parlamentari come John Thune del South Dakota, Todd Young dell’Indiana, e Mitch McConnell, tra i capigruppo dei repubblicani al Senato, hanno preannunciato che avrebbero “adempiuto al dovere costituzionale”, “ascoltando attentamente le prove” contro Trump, prima di esprimersi. Con 17 voti a favore del Gop, in aggiunta ai 50 democratici, l’ex presidente verrebbe definitivamente interdetto dai pubblici uffici e non potrebbe correre per la Casa Bianca nel 2024. Una mossa che darebbe ai repubblicani l’opportunità di ricostruirsi una credibilità politica senza la figura ingombrante di Trump da gestire.
Il tycoon ha annunciato l’intenzione di tornare “in qualche modo”, alludendo che non sarà più nel Partito repubblicano ma magari a capo di una nuovo movimento estremista e residual. O magari neanche più come politico, non avendo in realtà Trump mai fatto politica ma “solo” antipolitica. Affarista spregiudicato e comunicatore aggressivo, ha saputo impossessarsi di un partito in crisi di leadership, strappando milioni di voti popolari anche tra l’elettorato di sinistra facendo leva sul malcontento per gli strascichi della crisi economica del 2008, verso i migranti e la loro integrazione negli Stati Uniti, e non ultimo verso la crescente impopolarità presso l’opinione pubblica degli interventi in Afghanistan e Iraq degli ultimi 20 anni. Secondo i paper aggiornati della Brown University all’ottobre 2019, sono oltre 6.100 i caduti statunitensi dal 2001 in Afghanistan, e quasi 8.200 dal 2003 in Iraq; più di 650mila i veterani disabili che dal 2011 sono stati assistiti negli Stati Uniti una volta tornati dai teatri di guerra. Dal 2016 Trump ha cercato di ridurre l’impegno internazionale degli Stati Uniti anche in campo militare con il suo America First, programma nazional-protezionista che il tycoon proponeva sin dalla fine degli anni Ottanta nei suoi tentativi sporadici di buttarsi in politica. Prima nel Gop, poi tra democratici e come riformista populista, infine ancora nel Gop.
La formula dell’America first di Trump consiste nel disimpegno militare all’estero, nei muri alle frontiere e nei dazi isolazionisti degli Stati Uniti, nell’intenzione di spingere l’industria e la produttività interne. La guerra commerciale lanciata da Trump anche verso l’Unione europea, al pari del ritiro repentino delle truppe dal Medio Oriente e successivamente da Siria, Afghanistan e Somalia, ha minato settant’anni di atlantismo e di geopolitica statunitense, fermato in extremis dallo stesso intervento repubblicano che a fine dicembre ha bloccato a larghissima maggioranza il ritiro dalle basi in Germania disposto dalla Casa Bianca. In alternativa alla vecchia impostazione seguita tanto dalle amministrazioni democratiche che repubblicane, quella di Trump non ha mai avviato programmi seri e strutturati di rinnovamento, a medio e lungo termine, ma si è dimostrata capace solo di mosse scomposte, spesso anche contraddittorie e illogiche, quasi sempre dettate dall’umore del momento. Per esempio Trump ha prima lasciato libero il campo in Siria ai russi e agli iraniani – e ai turchi che hanno avuto il via libera per colpire duramente i curdi, non più utili a Trump nella lotta contro l’Isis –, e poi colpito in Iraq il comandante delle forze iraniane in Medio Oriente, Qassem Suleimani. Su questa e su altri atti sconsiderati da disastroso outsider, l’ex presidente ha sempre avuto un rapporto pessimo con Pentagono, le diverse agenzie di intelligence e con qualunque esperto e stratega – come raccontato anche nel libro Fire and Fury di Michael Wolff – che ha tentato di consigliarlo nei suoi quattro anni nello Studio Ovale.
Il risultato è che Trump ha isolato gli Stati Uniti dagli accordi sul clima e commerciali, portato ai minimi storici i rapporti con alleati di lunga data come l’Unione europea, e messo spesso in imbarazzo o in allerta con azioni imprevedibili altri partner come Sud Corea e Giappone. Questo vuoto di politiche, e in fin dei conti la perdita totale di credibilità degli Stati Uniti nel mondo, è l’eredità più pesante del trumpismo da affrontare ora tanto per i democratici quanto per i repubblicani. Ridare nuova sostanza alla democrazia statunitense, sarà l’unico modo per lasciarsi davvero alle spalle la distruzione e le divisioni anche economiche e sociali create in questi anni, e le premesse che le hanno favorite con Trump. Questa è forse la più grande sfida che dal 20 di gennaio dovranno affrontare Joe Biden e la sua vice Kamala Harris nei prossimi quattro anni.