Matteo Salvini, o del fallimento di una leadership in tre atti - THE VISION

Tra tentativi di diplomazia parallela in Russia finiti nel ridicolo, un passato da emissario moscovita in Italia difficile da nascondere e un consenso all’interno del partito ormai ridotto ai minimi storici, la sensazione è che Matteo Salvini stia facendo di tutto per auto-sabotarsi. La sicumera del “Capitano” coraggioso e senza macchia, capace di proiettare il Carroccio al 38% delle preferenze nei sondaggi e dettare la linea al centrodestra, è ormai un lontano ricordo; la fotografia odierna è quella di un leader in caduta libera, privo di visione strategica, sfiduciato e sempre più solo. 

Matteo Salvini

L’ennesima certificazione della parabola discendente del segretario leghista è arrivata da questo weekend elettorale. La prima batosta è arrivata dai risultati dei referendum sulla giustizia, da lui energicamente promossi a suon di slogan e raccolte firme, abbandonati poi per magia a poche settimane dal voto. I risultati sono stati sconfortanti: meno del 20% dell’elettorato leghista ha barrato le cinque schede (che, in generale, saranno ricordate come le meno votate dell’intera storia referendaria). Una scarsissima adesione che alcuni analisti hanno ricollegato alla natura estremamente tecnica dei quesiti e alla delusione seguita al “No” della Corte Costituzionale riguardo ai quesiti referendari sull’eutanasia e sulla legalizzazione della cannabis, che avrebbe generato nell’opinione pubblica un’ondata di sfiducia nei confronti della democrazia diretta.

Eppure, se la partita referendaria è naufragata così clamorosamente, una parte di colpa deve essere imputata anche a Salvini: dopo aver enfatizzato per mesi la necessità della separazione delle carriere dei magistrati e dichiarato di volere “cambiare la giustizia”, il leader leghista ha scelto di chiudersi nel mutismo più totale. Un fare disinteressato che è stato sottolineato anche dalla senatrice dei Radicali Emma Bonino, che ha sottolineato come il leader del Carroccio non abbia contribuito a rilanciare a sufficienza il tema: “Il coinvolgimento di Salvini è arrivato in corsa su un’iniziativa del Partito Radicale, ma, raccolte le firme, sembra ora non gli interessi più la buona giustizia. Mi pare sia più interessato a mettere in discussione le scelte di Draghi e a correre in soccorso dell’amico Putin – diciamo che il garantismo e la simpatia per quei regimi dove la libertà dei cittadini è annichilita sono un po’ in contraddizione – e i Referendum non siano la priorità”, ha dichiarato lo scorso 9 giugno.

Emma Bonino

Il secondo tracollo, il più grave, è quello delle elezioni amministrative: la partita dei comuni rappresentava un banco di prova fondamentale per testare la tenuta del Carroccio, soprattutto nel nord del Paese. Anche in questo caso, i risultati parlano chiaro: la Lega è andata male quasi ovunque, ottenendo meno voti di Fratelli d’Italia in 22 capoluoghi di provincia su 26. Un disastro in piena regola, che consegna la leadership della coalizione di centrodestra a una Giorgia Meloni mai così credibile e in rapida ascesa, capace di capitalizzare sui continui inciampi del leader leghista.

Giorgia Meloni

La parabola discendente del salvinismo non è iniziata di certo oggi, ma è un processo di logoramento che va avanti da quasi tre anni, dal famoso strappo del Papeete che staccò la spina al primo governo Conte. Dallo scorso 24 febbraio, però, la crisi del leader della Lega ha vissuto un’accelerazione imprevista. Probabilmente, nella prospettiva di Salvini, l’aggressione russa in Ucraina avrebbe potuto rappresentare l’occasione giusta per risalire negli indici di gradimento e riabilitare la sua immagine pubblica in senso pacifista, calandosi nei panni di mediatore di pace informale tra Kiev e Mosca.

Il problema è che questa operazione è andata malissimo sin dall’inizio: basti pensare al triste coup de théâtre di marzo, quando Wojciech Bakun, sindaco della cittadina di Przemysl ed esponente del partito di destra radicale Kukiz’15, ha ridicolizzato Salvini nel bel mezzo del tour polacco organizzato dal leader della Lega, ricordando a una platea parecchio nutrita (e, grazie all’eco che ne è seguita, all’Europa intera) il passato filo-putiniano di Salvini. Un errore strategico incomprensibile: gli elogi che, nel corso degli anni, Salvini ha riservato a Vladimir Putin non si contano, e non possono venire cancellati con un colpo di spugna.

Vladimir Putin

Solo per fare qualche esempio, nel 2018 si era sperticato in lodi per le sue doti da capo di Stato, sostenendo di essere pronto a “scambiarlo” con Mattarella alla prima occasione possibile (“Cedo due Mattarella in cambio di mezzo Putin!”, scrisse in un post su Facebook ora cancellato), mentre è difficile dimenticare le t-shirt campeggianti il volto del Presidente russo sfoggiate fieramente al Parlamento europeo. Dopo uno scivolone mediatico di queste proporzioni, la prudenza avrebbe suggerito a qualsiasi leader politico di correggere il tiro e adottare un atteggiamento il più possibile prudenziale; invece Salvini ha scelto addirittura di rilanciare, finendo nuovamente nel tritacarne mediatico a causa della triste vicenda del mai avvenuto “viaggio a Mosca” e del suo tentativo di “diplomazia parallela” tra le parti coinvolte nel conflitto in Ucraina.

La serie di colloqui che Salvini e la sua nuova “eminenza grigia”, Antonio Capuano – un ex senatore di Forza Italia pressoché sconosciuto alle cronache, ma che alcune voci accreditano come avvocato dell’ambasciata del Kuwait in Italia –, hanno intrattenuto con l’ambasciata russa in Italia ha imbarazzato fortemente il governo (appoggiato da una maggioranza di cui fa parte anche la stessa Lega), che ha fatto sapere di essere all’oscuro di ogni trattativa e di non vedere di buon occhio la circostanza che un leader di partito, privo di qualsiasi incarico, agisca in segreto per conto dell’Italia, rivendicando un ruolo diplomatico che non gli compete. La vicenda ha creato un certo imbarazzo anche nella stessa Lega: l’ala filo-europeista rappresentata da Giancarlo Giorgetti, che non ha mai visto di buon occhio le scorribande salviniane, sembra avere ormai scaricato del tutto il segretario. “Ho già avuto modo di dirlo, sono proposte suggestive, però bisogna muoversi di concerto con il governo. Sono questioni di portata mondiale, quindi ciascuno deve dare il suo contributo ma all’interno di percorsi che sono molto molto complicati”, ha detto Giorgetti lo scorso 31 maggio a Parma, durante il convegno di Unità Industriali, in quella che ha avuto tutto l’aspetto di una bocciatura netta per bocca di un ministro di peso. 

Giancarlo Giorgetti

Ai maldestri tentativi di cucirsi addosso la figura del pacifista, Salvini ha abbinato un’incapacità cronica di prendere una posizione chiara in merito all’invasione in corso, avventurandosi in giravolte retoriche strumentali e provando a insabbiare minuziosamente ogni riferimento alla sua (storica) vicinanza al Cremlino. I suoi inciampi sono evidenti in Senato, in cui gioca a fare l’equilibrista dicendosi contrario alla guerra senza però menzionare esplicitamente il nome di Putin: “Qui c’è chiaramente un aggressore e un aggredito”, ha detto a Palazzo Madama lo scorso primo marzo, “e Noi abbiamo il dovere di stare con gli aggrediti”. Peccato che il capo della Lega non abbia mai chiarito, nei dieci minuti del suo intervento, chi sia l’aggressore e chi l’aggredito.

Anche da questo punto di vista, Giorgia Meloni ha avuto la strada spianata, sfruttando a proprio vantaggio le incertezze di Salvini: da quando il conflitto ha avuto inizio, al contrario del suo co-azionista di coalizione, la leader di Fratelli d’Italia ha optato per una posizione chiara, scegliendo di arroccarsi in una posizione marcatamente atlantista e anti-russa, seguendo alla lettera la linea del governo italiano e sposando senza ambiguità retoriche la causa della Nato. Questo fare fermo e deciso ha rafforzato la sua credibilità presso gli elettori di destra, che hanno finito per considerarla una guida più affidabile e dai contorni meno ambigui rispetto alla controparte leghista. In un suicidio politico in tre atti, Salvini è riuscito a perdere tutto: la leadership del centrodestra, la fiducia del governo e del suo stesso partito. L’arco di trasformazione da “Capitano” a timido gregario sembra ormai essere arrivato alla sua fase conclusiva. 

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