Giuseppe Conte è un uomo poliedrico. Non è da tutti prendere così tante posizioni diverse rispetto a uno stesso argomento a distanza di così poco tempo, specie se si detiene una posizione di comando. E così i decreti Salvini erano un tempo necessari, una creatura del suo primo governo, mentre adesso vanno smantellati – anche se ufficialmente, a distanza di più di un anno dal Conte-bis, sono ancora lì. Vale lo stesso per il Reddito di Cittadinanza: dopo averla spacciata come misura epocale in grado di rivoluzionare il mondo del lavoro, il Presidente del Consiglio adesso si è accorto che forse le critiche non erano proprio campate in aria, e che la legge è stata pensata male e realizzata peggio. D’altronde non si poteva continuare a far finta di niente di fronte a certi numeri desolanti, certificato di un fallimento che da più di un anno e mezzo pesa sulle casse dello Stato.
Il Reddito di Cittadinanza è entrato in vigore il 28 gennaio 2019 e le prime tessere con l’importo mensile sono state distribuite ai beneficiari il 18 aprile dello stesso anno. Feticcio del Movimento 5 Stelle, nonché passepartout per entrare nelle grazie di gran parte dell’elettorato – soprattutto al Sud – e quindi giungere al governo, il Reddito di Cittadinanza è la cartina tornasole per tarare la transizione tra opposizione e maggioranza, quel passaggio da “facili promesse fuori da ogni responsabilità” a “la realtà forse è un’altra cosa”. Ai grillini sono state più volte poste domande in merito: dove avrebbero trovato le coperture per realizzarlo; in che modo avrebbero mandato tre proposte di lavoro a ogni beneficiario, in un Paese dove il lavoro non c’è; come avrebbero riformato i centri d’impiego con l’aggiunta dei “navigator”; come avrebbero fatto per evitare di trasformarlo in una misura assistenzialistica. Le risposte sono sempre state vaghe, chi osava criticare il Rdc veniva considerato un soggetto antidiluviano ancorato alle vecchie logiche del lavoro, impreparato ad abbracciare il cambiamento. Le risposte reali, quelle dei numeri e del riscontro effettivo del Rdc, però, sono arrivate: le coperture non c’erano, quindi si è agito in deficit; le tre proposte di lavoro sono rimaste un’utopia; i navigator stanno ingolfando un sistema già di per sé problematico; e soprattutto la misura si è rivelata totalmente assistenzialistica.
Qualche giorno fa, al Festival dell’Economia di Trento, Conte ha dichiarato che il Rdc va cambiato e che qualcosa non sta funzionando. “Il progetto di inserimento nel mondo del lavoro collegato al reddito di cittadinanza ci vede ancora indietro. Dobbiamo riorganizzare una sorta di network per offrire un processo di formazione e riqualificazione ai lavoratori”. L’auspicio del premier è di farlo nei primi mesi del 2021, ovvero due anni dopo l’entrata in vigore della misura. Si sa, il Rdc è stato realizzato in fretta per mantenere una promessa elettorale e probabilmente questi tempi ristretti hanno contribuito a determinare la sua inefficienza e il suo totale distacco da quella che è la realtà del mondo del lavoro – come peraltro era già stato ampiamente pronosticato.
Secondo i dati Inps più recenti, i percettori del Rdc hanno un assegno mensile medio di 570 euro e sono 3 milioni, una crescita del 25% rispetto a gennaio 2020. Di questi, 196mila hanno ottenuto un lavoro, ma al rilevamento del 7 luglio soltanto la metà sono rimasti lavoratori attivi. Gli altri hanno avuto lavori con contratti brevi, rimpolpando il già ben nutrito esercito dei precari. Inoltre, il 30% delle persone risultate idonee a ricevere un’offerta di lavoro non si è presentato al colloquio. Dunque, attualmente 2 milioni e 900mila persone sta riscuotendo l’assegno del Rdc senza lavorare. Questa cifra comprende soggetti non occupabili, gente che non ha alcuna intenzione di trovare un lavoro e furbetti che già ne hanno uno – ovviamente non dichiarato. Dall’entrata in vigore della misura sono stati spesi 8,5 miliardi di euro per i sussidi legati al reddito e alla pensione di cittadinanza. Una cifra enorme che ha sicuramente aiutato diverse famiglie, ma che ha attinto ai soldi dei contribuenti e ha creato un ulteriore debito che ricadrà sulle generazioni future. Ha inoltre sancito il flop del Rdc per come era stato pensato, fallendo su tutta la linea proprio sul tema che il Movimento 5 Stelle considerava fondamentale per dare un senso alla stessa misura: il lavoro.
Non possiamo non considerare alcuni fattori esterni che hanno contribuito a complicare ancor di più il percorso del Rdc. Di certo l’epidemia di Covid-19 che ha colpito duramente il Paese ha rallentato il processo lavorativo dei navigator, che sono tornati pienamente operativi soltanto a luglio. I navigator assunti in tutta Italia sono attualmente 2.846 e percepiscono uno stipendio di 1.700 euro al mese. Sono stati costretti a trovare tre posti di lavoro per tre milioni di persone all’interno di un sistema caotico, con i centri per l’impiego al collasso per la mancanza di offerte e senza delle direttive efficienti a livello regionale e nazionale. Non c’è da stupirsi se non stanno riuscendo a ottenere dei risultati. Sono i capri espiatori che pagano le colpe di legislatori impreparati, e durante il lockdown non hanno potuto fare i colloqui o anche solo lavorare a pieno regime, consapevoli peraltro che il loro contratto scadrà tra un anno e a quel punto saranno probabilmente loro a doversi affidare a qualcun altro per poter trovare un lavoro.
Eppure la causa del fallimento del Rdc non è tutta nel coronavirus. Basta leggere i dati ufficiali. Nel Giudizio sul rendiconto generale dello Stato del 2019 – dunque in epoca pre-Covid – la Corte dei Conti scrive riguardo il Rdc: “Dai dati degli uffici di controllo risultano essere state accolte circa 1 milione di domande, a fronte di quasi 2,4 milioni di richieste, delle quali, secondo elaborazioni di questo Istituto, soltanto il 2% ha poi dato luogo a un rapporto di lavoro tramite i Centri per l’impiego”. Viene quindi smontata l’idea che gli scarsi risultati del 2020 siano figli della casualità, visto che nel 2019 le percentuali sono state ancora peggiori, con il 98% dei beneficiari del reddito impossibilitato a lavorare. Va cambiata anche la narrazione degli scansafatiche divanari, perché al netto di un numero comunque rilevante di approfittatori sociali, c’è una maggioranza che un lavoro lo vorrebbe e che non lo trova a causa delle lacune dello Stato. Criticare il Rdc non vuol dire puntare il dito contro chi lo riceve in maniera classista, inasprendo la visione della popolazione attraverso le strategie di chi vuole far leva sulle disuguaglianze per alimentare le guerre tra ultimi e penultimi. È la misura in toto a essere stata fatta nel modo sbagliato. E chi ne ha più bisogno finisce per pagarne le conseguenze.
Anche Luigi Di Maio, uno dei principali promotori del Rdc, afferma che è necessario “un tagliando” e che la misura è migliorabile. “Avevamo in mente una manovra più profonda, ma occorreva comunque fare un passo avanti, iniziare a dare una direzione”, scrive il ministro su Facebook. Questo discorso, però, non può funzionare quando si sta al governo, perché quella del “meglio poco che niente” è una logica fallace, soprattutto se il poco è più dannoso del niente e si pensa più alle misure simboliche che alla concretezza. È lo stesso discorso del taglio dei parlamentari: non ha senso impostato in questo modo e in assenza di altre riforme strutturali, ma il M5S ha sempre ribadito l’esigenza di fare qualcosa per iniziare. Vengono quindi bandite le scelte ponderate, le riforme prima di qualsiasi azzardo, le azioni anche impopolari ma utili per il Paese. Per il Rdc serviva più tempo e un’organizzazione più aderente e consona al mondo del lavoro. Andava approvato una volta riformati i centri per l’impiego e in seguito a ricerche più approfondite, coinvolgendo anche gli imprenditori – quelli a cui adesso non conviene assumere i percettori del reddito – e ovviamente i sindacati. Senza fretta, senza l’ossessione dell’approvazione elettorale.
Intanto il 30 settembre è scaduto il diritto al beneficio del reddito per chi ha iniziato a riceverlo da aprile 2019. La prima tranche era infatti fissata a 18 mesi, e adesso è necessario un rinnovo della richiesta per capire se in questo lasso di tempo sono state rifiutate offerte di lavoro o se è cambiata la situazione economica del percettore, che per un mese non riceverà l’assegno in attesa dell’eventuale rinnovo. Secondo l’Inps questa scadenza arriva per 450mila nuclei familiari, la maggior parte di questi al Sud – con Campania e Sicilia in cima alle regioni con più beneficiari del reddito. A meno di un cambiamento radicale della misura, i nostri soldi continueranno a essere spesi per qualcosa di inapplicabile, illudendo le persone volenterose di poter trovare un lavoro, per regalare una somma extra a chi il lavoro non intende averlo. Una mancia elettorale particolarmente salata.