Dopo le dimissioni dalla carica di segretario di Nicola Zingaretti lo scorso 4 marzo, era lecito attendersi dal Partito Democratico una svolta radicale. I sondaggi collocano il partito al quarto posto con il 16,6% delle preferenze, scavalcato da Fratelli d’Italia con il 16,8% e dal M5S con il 17,2%. Ai sondaggi in discesa si aggiunge il paradosso di un partito che dovrebbe essere una delle componenti fondamentali del governo Draghi e che invece si è auto relegato a una posizione di irrilevanza. Per questo molti militanti ed esponenti del Pd hanno chiesto un cambio di rotta partendo da alcuni punti specifici: fare un passo a sinistra allontanandosi da una posizione centrista, dare maggior peso alle donne in un partito che ha dimostrato di avere più di un problema con la parità di genere, e soprattutto proporre come leader un volto nuovo, una figura vergine dopo anni di compromessi e identità smarrita. Come risposta è stato nominato come nuovo segretario Enrico Letta.
Dopo l’esperienza come presidente del Consiglio tra l’aprile 2013 e il febbraio 2014 e la sua caduta orchestrata da Matteo Renzi, Letta si è ritirato dalla politica attiva. Negli ultimi sette anni ha ottenuto una cattedra prestigiosa alla grande école Sciences Po Paris, presidenze e vicepresidenze in vari think tank internazionali, svolto diversi viaggi in giro per il mondo per ricerca e insegnamento, e ha pubblicato quattro libri. Nel mentre in Italia si sono succeduti altri sei esecutivi. Nonostante questo, al posto di proseguire sulla strada di una rispettosa carriera accademica, ha deciso di prestarsi al gioco preferito del Pd dalla sua fondazione: eleggere con un’ovazione il nuovo segretario per poi iniziare a demolirlo non appena finiti gli applausi.
Il profilo di Enrico Letta è uno dei migliori tra le file del Partito Democratico: è rispettato in ambito nazionale e internazionale, lontano dagli strilli di populisti e rottamatori che hanno trasformato la politica in una rissa perenne e che hanno svilito il dibattito pubblico. Probabilmente non è carismatico come altri leader di sinistra passati e contemporanei, ma in un’epoca in cui il carisma è associato sempre più spesso all’arroganza e alla prevaricazione, questo è un bene. Il problema infatti non è Letta come persona e politico, ma l’occasione persa per ringiovanire un partito che ha perso la sua visione costruttiva andando avanti per inerzia, sopravvivendo solo nella contrapposizione rispetto all’avversario politico del momento.
Escludendo i reggenti come Martina, Franceschini, Orfini ed Epifani, Letta è il primo segretario del Pd ad arrivare alla segreteria senza passare dalle primarie. Si era presentato a quelle alle prime del 2007 ma è stato battuto da Walter Veltroni. Oggi Letta è stato eletto dall’assemblea con 860 sì, due no e quattro astenuti, dopo giorni di corteggiamento da parte della dirigenza, fino alla plebiscitaria acclamazione del 14 marzo. Ora si trova ad affrontare il primo di una lunga serie di problemi interni: nelle liste per le elezioni del 2018 Renzi e la sua corrente hanno avuto un peso di primo piano, con il risultato che in Parlamento e all’interno del suo stesso partito c’è un numero non indifferente di politici che sette anni fa hanno contribuito a cacciarlo da Palazzo Chigi.
Se all’interno Letta dovrà fare i conti con tutta una serie di correnti, all’esterno il Pd ha un’altra serie di sfide da affrontare, in una fase in cui il tema ricorrente è quello dell’ipotesi della formazione di un campo progressista, guardando soprattutto a un Movimento Cinque Stelle guidato da Giuseppe Conte. Le perplessità di una parte degli elettori del Pd nascono proprio da questa prospettiva e dalle aperture che nel corso degli anni hanno visto il partito avvicinarsi a movimenti lontani dalla sua componente di sinistra. Se oggi è infatti al governo con Berlusconi e Salvini, è stato proprio Letta a dare il via libera alle alleanze con il centrodestra dando vita a un governo sostenuto anche da Angelino Alfano.
Un conto è puntare su un’apertura a Liberi e Uguali, ai bersaniani e altre frange scissioniste; un altro è commettere lo stesso errore dell’ultima legislatura, quando per difendere a tutti i costi il governo si è edificata l’immagine del Conte statista, con il M5S improvvisamente diventato un interlocutore naturale e l’avvio della ricerca dei moderati, che ha contribuito a rimettere al centro della scena persino personaggi come Clemente Mastella e partiti come l’UDC. Un altro passaggio del discorso di Letta riguarda il ruolo fondamentale che devono avere i giovani e le donne all’interno del partito e nella società. Ha anche dichiarato che “Lo stesso fatto che sia qui io e non una segretaria donna dimostra che esiste un problema”. Questa consapevolezza è un buon segnale, ma non nasconde la gravità di un partito che non si è mostrato capace di scommettere su una figura diversa da un suo storico dirigente. Eppure i profili interessanti non mancano. La crescita di Elly Schlein o Giuditta Pini poteva essere presa in considerazione. Entrambe hanno dimostrato coerenza, senza aver paura di criticare il partito o addirittura di abbandonarlo, e sono nomi che avrebbero rappresentato una svolta ecologista, europeista, giovane ed esterna a quelle storture evidenziate da Nanni Moretti in Piazza Navona già nel 2002, quando criticava una classe dirigente “perdente” che, di fatto, a distanza di 19 anni è rimasta la stessa. All’epoca Letta era un deputato della Margherita, un centrista allacciato all’Ulivo con un esordio nella Democrazia cristiana. Con l’idea attuale di aprire al M5S e ai partiti di centro, c’è il rischio che Letta possa portare a termine il progetto mai realizzato da Rutelli: trasformare l’intera coalizione di centrosinistra nella Margherita.
Veniva chiesta al Pd una certa dose di coraggio, ma questo è mancato. Ora Letta si trova a dover gestire un partito spaccato dalle divisioni interne e incerto sulla sua stessa identità, e di conseguenza sui suoi alleati nell’arco dei prossimi anni. Un segretario che dovrà dare al Pd un’identità che coincide in larga parte con quello che il suo leader non rappresenta, o non rappresenta più. Resta la speranza che gli obiettivi che Letta ha dato a se stesso e al partito nel discorso di domenica 14 non restino solo buoni propositi sulla carta. Lo chiede la parte progressista di un Paese che da diversi anni sente di non essere più rappresentato da nessun grande partito, come dimostra in modo spietato il calo costante dei consensi del Pd.