Verona è una città storicamente di destra. I suoi rapporti con l’estremismo della destra italiana hanno radici che affondano nella sua storia. Negli ultimi anni della seconda guerra mondiale era una delle capitali della Repubblica di Salò e fu la sede del Comando Generale della Gestapo. Durante i moti degli anni Sessanta e Settanta si distinse come centro reazionario, diventando la sede di diverse organizzazioni neofasciste: come la “Rosa dei venti”, del generale Amos Spiazzi; il “Fronte nazionale” di Franco Freda; “Ordine Nuovo” e la banda neonazista Ludwig, responsabile di 15 omicidi. Successivamente, Verona fu un territorio fertile per le organizzazioni giovanili dei partiti fascisti, Fronte della Gioventù e Azione Giovani, così come per i movimenti della destra radicale, con frange violente legate alla curva sud della tifoseria dell’Hellas.
Quando nel 1994 Berlusconi fece entrare nel suo primo governo leghisti ed ex missini, Verona era pronta da tempo. La Lega era riuscita a svilupparsi capillarmente, grazie alla destra radicale e al sostegno delle associazioni integraliste cattoliche che avevano investito in una forza politica che recepiva volentieri le sue prerogative discriminatorie. In quegli anni, queste due anime della città si fecero particolarmente evidenti: venne impiccato un manichino nero allo stadio per protestare contro l’acquisto di un giocatore di origini africane, vennero proposte entrate separate sui bus per gli italiani e gli extracomunitari, vennero riscoperte le Pasque Veronesi – anche prima che venissero studiate dalla storiografia – per celebrare il fondamentalismo cattolico che aveva messo fine in Veneto all’esperienza repubblicana nel periodo napoleonico. Fu lo stesso periodo degli interventi contro la comunità musulmana, con i riti di riconsacrazione degli spazi pubblici utilizzati la settimana precedente per celebrare il Ramadan e delle mozioni omofobe, mai abolite e mai sconfessate, così come delle “messe di purificazione” dopo il Pride: un vero e proprio laboratorio che è riuscito a plasmare un essere ibrido dato dall’unione del cattolicesimo e dell’estrema destra, in cui una delle due entità non poteva più sopravvivere senza l’altra.
Da quel momento, il governo della città non è mai sfuggito dalle mani della destra, se non per l’unica e rapida esperienza di centro sinistra con Paolo Zanotto, supportato dalla ex sindaca Michela Sironi, delusa da Forza Italia. Con Flavio Tosi, diventato sindaco nel 2007, il legame fra mondo cattolico ed estrema destra arrivò a fondersi definitivamente in una cosa sola, per stessa ammissione di esponenti di Forza Nuova. In quegli anni, gli ambienti più estremisti si sentivano sicuri, protetti da una politica che arrivò – come nel caso dell’omicidio di Nicola Tommasoli – a minimizzare la situazione di intolleranza e a proporre altri moventi futili, piuttosto che ammettere che l’odio ormai dilagava incontrastato. Nello stesso periodo, la Chiesa muoveva a supporto della classe politica di destra, allontanando dalle parrocchie più popolose all’interno della diocesi i sacerdoti più progressisti e proponendo ai fedeli gli esponenti leghisti a cui affidare il proprio voto.
Questo legame è continuato anche dopo Tosi, fino a oggi. L’attuale giunta uscente nel 2018 ha infatti cercato di minare il diritto all’aborto per le donne veronesi e nel 2019 ha ospitato il Congresso Mondiale delle Famiglie nel 2019, un congresso omofobo e oscurantista che ha riunito, oltre ai vari leader della destra europea e statunitense, personaggi dalle posizioni decisamente preoccupanti, come Dmitri Smirnov, arciprete della Chiesa ortodossa russa che ha definito “assassine e cannibali” le donne che decidono di abortire, e Theresa Okafor, una politica nigeriana che nel 2014 ha proposto una legge che criminalizza le unioni tra persone dello stesso sesso. Proprio a causa di questi temi cari al fondamentalismo cattolico, la politica veronese si è mossa per ospitare al meglio l’evento: vennero concessi il patrocinio del Comune, della Provincia e della Regione e, grazie all’ex vicesindaco di Verona – Lorenzo Fontana, entrato poi nel governo giallo-verde come ministro della Famiglia – anche quello del Consiglio dei Ministri (Conte I), poi ritirato. L’evento venne ospitato in uno dei palazzi di rappresentanza della città e ciò le causò una pessima visibilità internazionale, ma furono molti pochi i cittadini veronesi a reagire. La contromanifestazione transfemminista ebbe però un grande successo grazie alla mobilitazione delle associazioni di regioni e di città vicine.
A questa tornata elettorale, però, sta accadendo qualcosa di imprevisto. La destra si è presentata divisa, con l’ex sindaco Flavio Tosi supportato da Forza Italia e con la Lega e Fratelli d’Italia che appoggiano il sindaco uscente Federico Sboarina. Le difficoltà di un centrodestra unito, che negli ultimi mesi abbiamo imparato a conoscere a livello nazionale, a Verona si sono acuite per la scarsa stima reciproca dei due candidati sindaci di destra. Tosi è risultato terzo al primo turno, ottenendo il 24% e quindi arrivando dopo Damiano Tommasi, candidato sindaco del centrosinistra, e anche dopo Sboarina. Nonostante le rimostranze dei leader politici nazionali, Tosi e Sboarina non hanno raggiunto un accordo per portare i voti del primo a sostegno del sindaco uscente. Flavio Tosi, pur non volendosi avvicinare alla sinistra, ha trovato un muro da parte di Sboarina che non ha intenzione di cedere assessorati e posizioni importanti in Consiglio, formalizzando un’alleanza. Sboarina, dal giorno dopo le elezioni, sta facendo appello al popolo della destra veronese, affinché lo appoggi a prescindere, anche senza il formale appoggio di Tosi. Questa dinamica da antagonisti, fino ad ora, ha però favorito il candidato sindaco di sinistra, Damiano Tommasi, ex calciatore della Roma e della Nazionale, persona molto conosciuta in città per le sue attività di solidarietà. Tommasi è molto vicino agli ambienti cattolici – cresciuto in parrocchia e volontario per la Caritas, ha poi fondato la scuola Don Milani Middle School – e la sua candidatura ha scosso il mondo cattolico veronese, fra l’entusiasmo dei moderati e lo scetticismo degli integralisti, provocando una frattura nell’elettorato credente che l’alta gerarchia ecclesiastica veronese ha subito cercato di sanare.
Vivendo da decenni il mito e la paura di una sinistra comunista e trans-femminista, quello veronese è uno dei territori in cui ha attecchito maggiormente la teoria cospirazionista del gender come realtà in grado di distruggere tutti i valori portati avanti dal cristianesimo. Federico Sboarina, dopo essere arrivato secondo al primo turno, ha dichiarato: “Tommasi vuol far diventare Verona una capitale transgender”. Cosa significhi essere una capitale transgender è un quesito che solo la mente di Sboarina può sciogliere, ma tanto è bastato per alimentare una paura che a Verona aleggia da anni. La campagna elettorale di Sboarina per il ballottaggio è tutta basata su opuscoli che contemporaneamente ci soffiano sopra e la cavalcano. Per scampare al pericolo che ciò non fosse sufficiente e per ricompattare la frattura del fronte cattolico è corso in aiuto del sindaco uscente il vescovo di Verona, Giuseppe Zenti.
Già noto a livello nazionale per aver dato precise indicazioni di voto a favore della Lega in passati appuntamenti elettorali, nonché uno dei pochi esponenti cattolici presenti al Congresso delle Famiglie, non poteva certo trattenersi in questa occasione dal dare nuove indicazioni, in barba alla divisione fra mondo laico e mondo religioso. L’appello del monsignore, arrivato nei giorni più delicati della campagna elettorale, è stato un sincero sostegno a Sboarina, arrivato per tentare di ricompattare l’elettorato che le destre si stanno contendendo: “Nelle varie tornate elettorali, di qualsiasi genere, è nostro dovere far coscienza a noi stessi e ai fedeli di individuare quali sensibilità e attenzioni sono riservate alla famiglia voluta da Dio e non alterata dall’ideologia del gender; al tema dell’aborto e dell’eutanasia; alla disoccupazione, alle povertà, alle disabilità, all’accoglienza dello straniero; ai giovani; alla scuola cattolica, a cominciare dalle materne. Queste sono frontiere prioritarie che fanno da filtro per la coscienza nei confronti della scelta politica o amministrativa”. In questo passaggio è evidente che l’appello non è solo rivolto al voto dei sacerdoti, ma anche al voto di tutti quei fedeli a cui i sacerdoti possono arrivare.
Come accaduto in passato, non c’è stato alcun richiamo all’ordine da parte dei superiori per il vescovo di Verona, che mosso dal troppo zelo o dalla paura di perdere potere, si è attivato per l’ennesima volta, muovendosi in un campo che non dovrebbe spettare a un monsignore. L’intromissione tanto esplicita della Chiesa cattolica in appuntamenti politici così delicati è una vergogna per uno Stato laico come in teoria dovrebbe essere il nostro e il sobillare l’elettorato con la paura è quanto di più lontano da ciò che un vescovo dovrebbe fare. Verona per una volta sembra avere la possibilità di riscattarsi, vedremo se vincerà invece ancora il terrore per le diversità, segnando una sconfitta sociale e civile.