Le elezioni statunitensi sono da sempre una cartina tornasole per capire cosa succederà su larga scala. Non fanno eccezione quelle che si terranno il 5 novembre e in base al vincitore cambieranno le strategie e gli assetti geopolitici del mondo. Il fatto curioso è che ai cittadini statunitensi non interessa praticamente nulla della politica estera. Noi europei abbiamo una visione distorta della vera “America”, immaginando sia quella dello star system di New York o di Los Angeles, di Leonardo Di Caprio o di Billie Eilish, che lanciano messaggi di pace guardando fuori dai propri confini. In realtà, il nucleo americano risiede nel diner sperduto in mezzo all’Ohio o nella fattoria in Arizona, e nel dibattito è più che marginale il ruolo degli Stati Uniti a Gaza o a Kiev. Anche perché, fondamentalmente, gli statunitensi non solo viaggiano pochissimo – meno di metà della popolazione ha un passaporto per andare all’estero, e spesso c’è chi non si sposta neanche tra uno Stato e l’altro degli USA – ma non hanno neanche una cultura geografica tale da distinguere, per esempio, la Svezia dalla Finlandia. D’altronde, lo stesso Donald Trump, qualche anno fa disse che “il Belgio è una bellissima città”.
La vera America è quella dei luoghi dimenticati da Dio di Cormac McCarthy, non un red carpet a Hollywood, nonostante i media nostrani facciano fatica a ricordarlo. A un redneck conservatore non fregherà mai nulla di Netanyahu o di Putin, chiede al suo repubblicano di riferimento, soprattutto se spregiudicato come Trump, di fronteggiare quella che considera la vera priorità della sua vita: la sicurezza. Quindi più armi e, soprattutto, muri più alti al confine con il Messico per non far entrare i clandestini. Fin qui nulla di nuovo, ogni destra del mondo ha il suo Messico: per noi è il Mediterraneo e invece di muri si parla di blocchi navali. Il tema dell’immigrazione è però toccato anche dai democratici, con Biden che sa di giocarsi la vittoria più sulle frontiere a Sud che sulla politica estera. Ed è storicamente sempre stato così. Chi è stato rieletto dopo quattro anni, lo ha fatto perché ha dato risposte sulla politica interna, a prescindere dal numero di nefandezze compiute fuori. Da quando ho memoria, l’unico presidente uscente a non essere stato rieletto è proprio Donald Trump. È riuscito a rivincere anche Bush Jr., nonostante le sciagurate guerre in Afghanistan e in Iraq, e Obama è stato valutato principalmente per ciò che ha fatto in patria, non per gli interventi militari nel Nord Africa o in Medio Oriente. Se Trump nel 2020 ha perso, seppur di poco, è stato soltanto per la vergognosa gestione della pandemia, con la Sanità in tilt e i suggerimenti del tycoon di curare il Covid con il disinfettante.
Fa quasi impressione, ma dopo quattro anni Trump sarà di nuovo il candidato dei repubblicani, considerando che alle primarie sta sbaragliando tutti. E sfiderà di nuovo Biden. Non sono un fan sfegatato di Federico Rampini, e in generale dei “giornalisti di sinistra che piacciono alla destra” che frequentano i salotti televisivi di Rete 4 per intenderci. Ha però detto una frase che tendo a condividere, nonostante i toni sopra le righe: “La scelta è tra un deficiente e un delinquente”. Per Trump potrebbero valere entrambe le definizioni, e Biden dopo aver votato contro la risoluzione ONU per il cessate il fuoco a Gaza diventa quantomeno complice di crimini altrui – quelli di Netanyahu nei confronti del popolo palestinese. A stupire è che Trump sia in corsa per la Casa Bianca nonostante il colpo di Stato di Capitol Hill e tutti i processi a suo carico. Ancora più ironico è venire a conoscenza che, anche se finisse in carcere, non esistono negli Stati Uniti delle leggi che gli impediscano di fare ugualmente il presidente. In tal caso, non so, gli daranno una cella ovale.
È uno dei tanti cortocircuiti di una nazione dove è possibile comprare in un supermercato un’arma da fuoco ma non un Ovetto Kinder, in quanto considerato “pericoloso per i bambini” secondo una legge federale del 1938. Dunque Trump è eleggibile, come ha confermato la Corte Suprema. Corte attualmente composta da sei giudici conservatori e tre dem, e tre sono stati nominati proprio da Trump. Da suprema a suprematista è un attimo. Sta tra l’altro togliendo vari ostacoli dal cammino dell’ex presidente, perché è molto probabile che dei quattro grandi processi che dovrà affrontare, tra rinvii strategici ed escamotage vari, soltanto uno avrà vita prima delle elezioni. Ovviamente il meno importante, ma sarà un caso.
Parlo del processo che inizierà il 25 marzo e che vede coinvolto Trump per l’accusa di aver pagato – in nero – la pornostar Stormy Daniels e l’ex coniglietta di Playboy Karen McDougal per non far rivelare, durante la scorsa campagna elettorale, le relazioni sessuali avute con loro. L’America conservatrice tiene parecchio all’immagine della famiglia immacolata, e Trump comprò il loro silenzio per non sporcarla. Essendo eventualmente un reato statale, se venisse eletto presidente non potrebbe nemmeno concedersi la grazia da solo. Diciamo che è un po’ la fase berlusconiana di Trump, il suo bunga bunga. Sono due personaggi con molti punti in comune: la ricchezza sfrenata e i problemi fiscali, la discesa in politica out of the blue, la megalomania, la donna vista come trofeo sessualizzato, l’allergia alle leggi e il vittimismo da perseguitati. Entrambi si sono autoproclamati martiri della magistratura. Se Berlusconi in vita se l’è cavata “solo” con una condanna per frode fiscale, Trump oltre al caso Daniels ha altri tre processi che potrebbero condurlo al carcere.
Un altro processo riguarda i documenti classificati trovati nella sua residenza a Mar-a-lago. Le accuse a Trump sono molteplici: sottrazione di informazioni sulla Difesa nazionale, occultamento di documenti, false dichiarazioni o cospirazione per ostacolare la giustizia. Una scena quasi grottesca, e assolutamente inedita per un ex presidente USA, con i federali a irrompere nella sua abitazione e trovare scatoloni pieni di documenti che, semplicemente, Trump non doveva possedere e portare lì. Il processo più impegnativo e con le accuse più gravi è però quello legato ai fatti di Capitol Hill del 6 gennaio 2021, con l’assalto al Campidoglio e la fuga di deputati e senatori. Trump è accusato di incitamento all’insurrezione, cospirazione contro il governo degli Stati Uniti, false dichiarazioni e altri reati penalmente rilevanti. L’accusa si basa anche sulle pressioni fatte al suo vice, Mike Pence, per impedire il regolare passaggio dei poteri, un unicum nella storia statunitense. Trump ovviamente non era presente a Capitol Hill, ma aveva aizzato i suoi sostenitori sia con un comizio che su Twitter, al grido “Get smart Republicans. FIGHT!”.
Il quarto processo è ugualmente legato alle elezioni del 2020 e al tentativo di Trump di ribaltare i risultati elettorali. Nello specifico, vengono trattate le vicende nello stato della Georgia, con al vaglio anche una telefonata di Trump al segretario di Stato repubblicano della Georgia, Brad Raffensperger, in cui chiedeva – non con le buone – di trovare i voti mancanti per vincere nel suo Stato. Se anche in uno solo di questi quattro processi Trump venisse condannato, si creerebbero scenari poco piacevoli. Tra questi anche una rivolta dei suoi sostenitori ancora più violenta di quella di Capitol Hill, con una scena che ricorda il finale de Il caimano di Nanni Moretti e che avrebbe i contorni quasi di una guerra civile. Immaginatevi centinaia di migliaia di texani armati fino al collo che marciano per sottrarre Donald Trump al corso della giustizia. Sembra la sceneggiatura scadente di un film americano, ma non si allontanerebbe troppo dalla realtà. Anche perché, parliamoci chiaro, le elezioni di novembre saranno davvero la sceneggiatura scadente di un film americano.
Trump, tra l’altro, è stato già formalmente arrestato lo scorso agosto, con tanto di foto segnaletica e impronte digitali prese, per la vicenda Georgia 2020. Ovviamente è stato rilasciato su cauzione dopo venti minuti, ma resta l’immagine simbolica di un ex presidente finito nelle mani della giustizia. E si parla principalmente di questi quattro processi perché sono quelli rilevanti ai fini elettorali, ma l’ex presidente ha ricevuto diverse altre condanne in sede civile. L’ultima, risalente a meno di un mese fa, è per una frode finanziaria legata alle aziende di famiglie, con guadagni illeciti e asset gonfiati. È stato condannato dallo Stato di New York a pagare 355 milioni di dollari. Essendo però un illecito civile, il danno è solo d’immagine, e Trump ha ovviamente risposto definendo corrotti i giudici. Di fronte a questi innumerevoli guai giudiziari, la destra di tutto il mondo, compresa quella italiana, replica con quella che risulta essere una delle più grandi, e globalmente diffuse fake news del terzo millennio: “Sticazzi dei suoi processi, Trump è l’unico presidente americano a non aver fatto nessuna guerra”. Ovviamente è falso.
In realtà Donald Trump è uno dei più grandi responsabili dei disordini geopolitici a cui stiamo assistendo in questi anni. Ci sono due modi per fare la guerra: attaccando o lasciando che altri attacchino. Parlando anche solo di guerre dirette, tra il 2017 e il 2018 Trump ha bombardato la Siria con centinaia di missili. Operazione speciale contro siti militari, si diceva, ma in realtà i missili hanno causato centinaia di vittime civili, compresi dei bambini. Nel gennaio del 2020 ha invece ordinato un raid all’aeroporto di Baghdad per uccidere il generale iraniano Qasem Soleimani, che ha causato la morte di altre nove persone. L’Iran ha immediatamente chiesto un mandato d’arresto per Trump, che agì in accordo con Netanyahu. A proposito del suo fedele alleato a capo dello Stato di Israele, le tensioni con i palestinesi sono notevolmente aumentate quando Trump ha firmato gli Accordi di Abramo, una sorta di contratto visionato da tutti tranne che dalla Palestina stessa, e quando un giorno ha proclamato dal nulla Gerusalemme capitale di Israele, causando conflitti e attacchi terroristici nei giorni successivi. Anche i curdi avrebbero qualcosa da ridire sul “Trump pacifista”. Dopo essere stati per anni lo scudo contro l’Isis, Trump li ha consegnati nelle mani di Erdogan attraverso uno spostamento di truppe che ha permesso all’esercito turco di occupare 400 chilometri di territorio a est del fiume Eufrate per estromettere i curdi. Soltanto due mesi prima, Trump aveva promesso una protezione ai curdi in cambio dello smantellamento delle postazioni di difesa costruite dalle Sdf (Forze Democratiche Siriane) al confine con la Turchia. Una volta svolto il compito, i curdi sono stati traditi.
Inutile anche citare il rapporto tra Trump e Putin, le interferenze russe nelle elezioni americane del 2016 e le mosse per destabilizzare l’Unione Europea per favorire il dittatore del Cremlino. E sta qui il principale pericolo di una rielezione di Trump. Se a Gaza cambierà poco in base al vincitore – sarebbe stato diverso se al posto di Biden ci fosse stato qualche socialista come Ocasio Cortez o Sanders, ma nella terra del maccartismo è ancora uno scenario utopico – visto che qualsiasi presidente statunitense manterrà viva l’alleanza strategica con Israele, diverso è invece il discorso con la Russia. In un recente comizio, Trump ha dichiarato con aria tronfia che inciterebbe Putin per attaccare i Paesi Nato indietro con i pagamenti. La sua vittoria non soltanto porterebbe l’Ucraina alla resa, ma legittimerebbe l’invasione di Putin e indebolirebbe l’intero Occidente. Sono però discorsi che purtroppo coinvolgono soltanto la bellissima città Belgio e quella parte di mondo totalmente ignorata dai cittadini americani, che invece voteranno di pancia, come probabilmente avviene in tutto il mondo. E noi subiremo la scelta di chi vuole il suo fucile negli scaffali di Walmart per difendersi dai fantomatici invasori provenienti dalle frontiere meridionali, mentre Putin spedirà le arance nella cella del nuovo presidente degli Stati Uniti.