In quello che è diventato uno dei momenti più discussi dell’ultimo dibattito presidenziale, il candidato democratico Joe Biden ha annunciato la sua intenzione, come Presidente, di avviare il Paese verso una vera e propria rivoluzione energetica: “Perché l’industria petrolifera inquina in modo significativo,” ha ribadito, rivolgendosi al pubblico. “[…] E deve essere sostituita nel tempo da [fonti di] energia rinnovabile”. Trump, che lo aveva incalzato sulla domanda, ha trattato la cosa come una rivelazione estemporanea del suo avversario – quasi si trattasse di un’ammissione involontaria – ma la proposta, opportunamente articolata, è in realtà uno dei punti principali dell’agenda di Biden fin dalle primarie.
Il programma dell’ex vicepresidente è ambizioso e va ben oltre il classico attacco all’industria petrolifera. Nessun candidato alla presidenza americana, infatti, aveva mai proposto prima d’ora un piano simile di investimenti per l’ambiente. Il framework, attualmente, prevede una spesa federale di 1,7 triliardi di dollari in dieci anni, con lo scopo di portare a zero l’emissione netta di gas serra degli Stati Uniti entro il 2050. Nel testo si parla di investimenti in tecnologie strategiche, una tassazione più aggressiva delle emissioni e una serie di incentivi indirizzati al trasporto pubblico e alla mobilità elettrica. Oltre a queste premesse è addirittura prevista la creazione di una nuova agenzia federale (ARPA-C) per accelerare lo sviluppo di tecnologie fondamentali. 400 miliardi di dollari verrebbero quindi investiti nella ricerca su reattori nucleari modulari, sistemi di cattura del carbonio, reti di stoccaggio energetico e su una produzione industriale delle materie prime a basse emissioni. A ciò si unisce la promessa di riportare gli Stati Uniti negli Accordi di Parigi, insieme al ripristino delle policy e delle regolamentazioni ambientali abrogate dall’amministrazione Trump.
Questo programma ambizioso ha suscitato molte risposte positive nei liberali. Gli attivisti per il clima lo hanno accolto, seppur tiepidamente, come una prima apertura verso scelte future più coraggiose. Gli esperti, invece, lo vedono come una sorta di versione “realistica” del ben più famoso Green New Deal – l’idea sposata dal candidato socialdemocratico Bernie Sanders. Quest’ultimo aveva infatti proposto un programma ancora più ambizioso di quello attuale, sia nei tempi – dieci anni contro i trenta ipotizzati da Biden – che nella spesa – oltre sedici triliardi di dollari totali. Ma se il piano di Sanders aveva entusiasmato i suoi sostenitori, non aveva però trovato particolare supporto all’interno della comunità scientifica, che lo aveva giudicato poco pratico e carente su alcuni punti fondamentali. Al contrario di Biden, infatti, Sanders aveva completamente escluso dal suo programma tecnologie considerate necessarie dagli esperti, come l’energia nucleare e i sistemi di cattura del carbonio – in quanto considerate “false” soluzioni.
Inoltre, il Green New Deal aveva anche incontrato l’inaspettata opposizione di alcune importanti sigle sindacali. Già nell’aprile scorso, Richard Trumka, presidente dell’American Federation of Labor and Congress of Industrial Organizations (AFL–CIO), aveva lamentato il mancato coinvolgimento di sindacati e lavoratori nel processo di stesura della bozza. L’AFL-CIO è la più grande federazione di sigle sindacali degli Stati Uniti, e rappresenta oggi più di 12,5 milioni di lavoratori – molti dei quali votano in Stati che decidono il risultato elettorale. Si tratta di un punto fondamentale per i democratici. Già quattro anni fa, Trump si era guadagnato il sostegno della classe operaia della Rust Belt proprio promettendo loro di creare nuovi posti di lavoro, sbarazzandosi delle leggi sull’ambiente imposte dall’amministrazione Obama. L’agenda di Biden è quindi pensata anche per coinvolgere queste categorie – sia per non giocarsi il loro sostegno che per dargli la possibilità reale, in seguito, di trovare un posto nella nuova economia.
La strategia sembra essere quindi indirizzata a trovare un compromesso tra due elettorati diametralmente opposti: da una parte quello urbano e sensibile alle tematiche ambientali; dall’altra quello operaio, che vive in prima persona il progressivo declino di quelli che fino a quindici anni fa erano lavori sicuri e ben pagati – in media anche tre volte il minimo salariale nazionale. Nonostante questa consapevolezza, non è stato sempre possibile conciliare le due visioni, come nel caso emblematico del fracking, un metodo di estrazione del gas naturale in uso dagli anni Quaranta, ma che negli ultimi dieci anni è stato particolarmente osteggiato dagli ambientalisti – che, nel lungo periodo, temono una contaminazione della falda acquifera. La questione è così dibattuta che già durante le primarie democratiche diversi candidati ne avevano proposto il bando. Tra questi c’era persino la senatrice Kamala Harris, scelta in seguito da Biden come running mate.
Una moratoria sul fracking, tuttavia, presenta due incognite fondamentali. La prima è di tipo ambientale: senza il gas naturale a coprire le mancanze di risorse più intermittenti – come eolico e solare – la rete elettrica tornerebbe a fare affidamento su sistemi molto più inquinanti, come ad esempio il carbone. Il secondo punto è invece di tipo politico, in quanto l’estrazione del gas naturale è un elemento fondamentale nell’economia di Stati come la Pennsylvania e l’Ohio. Anche in questo caso, Biden ha trovato un compromesso. Il suo programma prevede “limiti aggressivi dell’inquinamento da metano” assieme ad altre regolamentazioni più strette – come il divieto di estrazione sul terreno federale. Riconoscendone l’importanza per l’economia locale, non può promuovere un vero e proprio bando senza catastrofiche conseguenze per la sua campagna elettorale. Ma la questione potrebbe essere rimessa in discussione dopo il 3 novembre.
Biden si è candidato in un periodo di forte cambiamento nella politica liberale americana. Tematiche prima relativamente poco popolari, sul welfare e sull’ambiente, hanno progressivamente conquistato visibilità e consenso tra gli elettori democratici, riposizionando di conseguenza anche il partito. Tuttavia, l’elettorato generale, così com’è al momento, non è affatto omogeneo. Per questo motivo ha dovuto giocare fin dall’inizio un doppio ruolo agli occhi degli americani, presentandosi da una parte come il candidato moderato e rassicurante e dall’altra prendendo posizioni più radicali, in modo da entusiasmare le frange più progressiste del partito. Questa particolare contingenza lo ha reso in qualche modo, nel bene e nel male, il candidato alla presidenza americana più convenzionale e al tempo stesso più imprevedibile degli ultimi anni. In questo senso, la sua agenda sul clima è un perfetto distillato politico di questa nuova America. Da una parte difende posti di lavoro in settori che stanno vivendo un periodo di forte e inesorabile ridimensionamento; dall’altra prepara il campo per una rivoluzione inevitabile a vantaggio della collettività.
Ma vincere le elezioni potrebbe non essere sufficiente per realizzare l’agenda sul clima. Un Presidente americano non può infatti implementare un piano di investimenti simili senza prima avere una solida maggioranza sia al Senato che alla Camera. Anche in questo caso, la parola finale spetterà agli elettori.