No Salvini, non fingere che le elezioni non siano andate male, devi dimetterti ma chiedi il Viminale - THE VISION

Il poeta premio Nobel Thomas S. Eliot scriveva che “in un minuto c’è il tempo per decisioni e scelte che il minuto successivo rovescerà”. Matteo Salvini quel minuto l’ha vissuto tre anni fa, alle elezioni europee, quando ottenne il 34,3% delle preferenze. Era a un passo dai pieni poteri e provocò la caduta del primo governo Conte cercando di ottenerli. Come da prassi, però, il destino è stato rovesciato e oggi esce dalle ultime elezioni con un 8,9%, tonfo che avrebbe fatto dimettere un leader di qualsiasi altro partito. Tranne il suo, perché la Lega-non-più-Nord è Matteo Salvini, allo stesso modo in cui Forza Italia è Berlusconi, nonostante il fiato di Zaia sul collo. Non è un caso se i leghisti ad aver chiesto le sue dimissioni siano quelli del vecchio Carroccio (Maroni e Bossi), mentre quelli del nuovo corso gli abbiano rinnovato la fiducia. Quindi non c’è stata alcuna analisi della sconfitta: il Capitano ha parlato da vincitore riferendosi al successo elettorale del centrodestra, dettato esclusivamente dall’exploit di Giorgia Meloni. Sul suo profilo Facebook campeggia un’immagine di copertina con Salvini sorridente e un ringraziamento per i due milioni e mezzo di voti presi. Non se l’è sentita di mettere la percentuale – avrebbe dato la misura della sua sconfitta – e nemmeno di ricordare che nel 2019 i voti erano più di nove milioni. C’è però poco da festeggiare di fronte alla sua débâcle perché rischiamo di trovarcelo di nuovo al Viminale.

Roberto Maroni
Umberto Bossi

Nei giorni successivi alle elezioni, i principali quotidiani italiani si sono affidati a ricostruzioni fantasiose sul destino. “Meloni non gli darà ruoli chiave nel governo”, “Meloni ha deciso di tenerlo lontano perché è amico di Putin”, “La Lega senza il Viminale darà solo un sostegno esterno all’esecutivo” e via dicendo. Meloni, però, ha ufficialmente smentito i titoli dei giornali sul toto-ministri e su eventuali veti su Salvini; mentre quest’ultimo, sui social, ha fatto capire nemmeno troppo velatamente che il suo obiettivo è tornare a essere ministro dell’Interno. La sua strategia si è basata proprio sulla demonizzazione degli avversari politici che in questi giorni stanno osteggiando la sua corsa a quel ruolo. Ha infatti riportato le parole di Matteo Ricci del PD (“Salvini al Viminale sarebbe una sciagura per l’Italia”) e di Roberto Saviano (“Salvini al Viminale sarebbe un atto criminale”) non soltanto per aizzare il suo popolo contro i soggetti in questione, ma per ribadire che la sua intenzione è proprio quella dell’assassino che torna due volte sul luogo del delitto.

Ci sono due motivi per cui Salvini sarebbe inappropriato al Viminale in questo momento storico: gli strascichi della sua precedente esperienza in quel ruolo e il suo rapporto con Putin. Per il primo caso occorre ricordare che c’è una pendenza che né Mattarella né Meloni stessa possono ignorare: Salvini è tuttora sotto processo per omissione di atti d’ufficio e sequestro di persona in riferimento ai fatti dell’agosto del 2019, quando impedì alla nave dell’Ong spagnola Open Arms con a bordo centinaia di migranti di attraccare a Lampedusa. Fu un atto di forza che ebbe eco mediatica in tutto il mondo e ancora oggi Salvini viene associato a quell’immagine un po’ grossolana da Orban-wannabe. Cosa che lui d’altronde rivendica con orgoglio, considerando che durante la campagna elettorale ha promesso di tornare a “fermare gli sbarchi”. Tralasciando la brutalità del gesto, ovvero impedire a degli esseri umani in difficoltà di spostarsi da un Paese all’altro, un diritto secondo i trattati internazionali, si tratta di una falsità, perché Salvini gli sbarchi – a eccezione di qualche episodio a favore di telecamere – non li ha mai fermati, anche se solo poche settimane fa ha dichiarato ancora una volta di aver “azzerato gli sbarchi”.

Intanto, Salvini si è appoggiato alle politiche del suo predecessore, Marco Minniti e quindi agli accordi – anch’essi umanamente raccapriccianti– realizzati con la Libia. Analizzando i numeri è poi possibile comprendere la menzogna che sta dietro alla frase di Salvini. Nel suo periodo da ministro dell’Interno, ovvero dal primo giugno 2018 al 4 settembre 2019 non c’è stato alcun “azzeramento” degli sbarchi, essendo arrivati sulle nostre coste più di 15mila migranti. Un numero che ha seguito la tendenza del calo scaturito dagli accordi di Minniti. Infatti, con Lamorgese ministra, pur con cifre più alte rispetto al governo Salvini, il numero degli sbarchi è rimasto ben al di sotto delle cifre del periodo 2014-2017. Anche perché Salvini, da ministro, non ha cambiato la politica di Minniti, né rinegoziando gli accordi con la Libia né cambiando i trattati internazionali, come quello di Dublino. Quindi, al netto di qualche show da “pugno duro” sulla pelle di centinaia di esseri umani, sostanzialmente Salvini per arginare il fenomeno dell’immigrazione ha agito solo a parole. Anche sul tema dei rimpatri – altra azione di cui comunque non andare fieri – Salvini ha fatto ben poco. Aveva anticipato che sarebbero stati 600mila, ma si è fermato a circa l’1% di quella cifra, addirittura meno di quelli del governo Renzi-Gentiloni. Quindi un elettore progressista, o anche solo moderato, non può augurarsi Salvini al Viminale per evitare il bis di vite umane usate come merce elettorale tenendole per giorni in mare aperto, ma persino un sovranista di ferro dovrebbe tentennare di fronte a questa opzione, considerato che “rimpatri e sbarchi” non sono che un motto da propaganda elettorale.

Marco Minniti

Inoltre, Salvini ha più volte ribadito che il suo ritorno al Viminale coinciderebbe con il revival dei decreti sicurezza, quelli già firmati da ministro e probabilmente altri aggiornati. Decreti che, oltre a essere eticamente deplorevoli, alimentavano ulteriormente l’illegalità, in seguito allo smantellamento del sistema di accoglienza ex Sprar e alle multe per chi soccorre i migranti in mare. Queste misure sono anche in contrasto con l’idea di Meloni sull’immigrazione. Le prime frizioni infatti ci sono state già durante la campagna elettorale, con Meloni a insistere sul blocco navale farlocco e Salvini a spiegare come non fosse necessario attuarlo, potendo contare sui suoi decreti sicurezza. Quindi da un lato la proposta legalmente impraticabile di Fratelli d’Italia trasformata in una missione Sophia 2.0; dall’altro la morte dei diritti della politica salviniana. E forse il primo è il male minore, in quanto appunto inattuabile e pertanto riconducibile alla vecchia operazione dell’Unione Europea. Ma un Salvini ministro dell’Interno non si accontenterebbe di eseguire gli ordini della sua leader di coalizione: come durante il governo gialloverde, userebbe il suo ruolo come palcoscenico per una campagna elettorale perenne, vantandosi di azioni mostruose o di presunti successi in realtà mai raggiunti.

Per quanto riguarda l’altra scomodità di Salvini al Viminale, ovvero la sua vicinanza alla galassia putiniana, a poco varranno le sue parole di qualche giorno fa, quando dichiarò di aver cambiato idea su Putin dopo la guerra in Ucraina. Anche perché tra Lega e Russia Unita, il partito di Putin, c’è un accordo scritto che risale al 2017 ed è stato rinnovato a marzo di quest’anno, dopo che la Russia aveva invaso l’Ucraina. Ed è un documento pubblico. Parla di collaborazione tra le parti ed è ciò che già possiamo vedere. Quello che ci è al momento precluso, almeno in parte, è il rapporto legato a eventuali finanziamenti ricevuti dal Carroccio attraverso Gianluca Savoini, intercettato con alcuni emissari russi in un albergo di Mosca mentre si parlava di affari poco trasparenti. Le indagini sono ancora in corso. Abbiamo però diverse testimonianze della fascinazione di Salvini per Putin, a partire dai suoi pellegrinaggi in direzione Cremlino indossando (anche all’Europarlamento) la maglietta raffigurante il dittatore russo, come fatto notare anche in Polonia durante il suo viaggio mediatico successivo all’invasione russa dell’Ucraina. Sempre all’Europarlamento Salvini dichiarò: “Cedo due Mattarella per mezzo Putin”. Inoltre, nel 2017 Joe Biden, all’epoca semplice senatore, disse che, secondo i servizi segreti americani, la Russia stava sostenendo la Lega e il M5S. All’epoca nessuno prese sul serio quelle parole, in quanto i partiti venivano considerati agli antipodi. Ma un anno dopo si allearono e formarono un governo insieme.

Vladimir Putin e Gianluca Savoini
Matteo Salvini, Vladimir Putin, Giuseppe Conte e Luigi Di Maio

Avere quindi Salvini di nuovo al Viminale sarebbe deleterio per il nostro Paese sia come credibilità a livello internazionale che per le stesse dinamiche interne che si instaurerebbero. Userebbe, infatti, il suo ruolo come grimaldello per scardinare le porte della prepotenza e della propaganda per fini personali. Diventerebbe tutto cosa sua, come quando faceva rimuovere striscioni di protesta alle manifestazioni o usava i mezzi delle forze dell’ordine per far divertire suo figlio al mare. È vero, adesso dal basso del suo 8% non ha più il potere contrattuale per poter ottenere ciò che vuole, ma per una questione di equilibri interni del centrodestra Meloni non può di certo sbarazzarsi di lui o relegarlo in ministeri di poco peso. Probabilmente, dunque, tornerà la stagione della prevaricazione, della forza usata contro i più deboli per racimolare un pugno di voti; l’era delle minacce agli intellettuali e delle voci critiche messe alla gogna; il tempo dell’arroganza e dei diritti calpestati. Sapevamo che saremmo andati incontro a questo scenario, anche con un Salvini elettoralmente debole e se il momento è arrivato è anche responsabilità di un Paese che per darsi un tono ha bisogno della muscolarità e del pugno di ferro. Evidentemente non impariamo mai la lezione.

Segui Mattia su The Vision | Facebook