“È evidente che la gente è poco seria quando parla di sinistra o destra”, cantava Gaber in “Destra-sinistra”, brano del 1994. Da quell’anno, che coincide con la discesa in campo di Silvio Berlusconi, la poca serietà ha lasciato il posto alla farsa. Il rapporto simbiotico tra politici ed elettori c’è sempre stato nel corso della storia, ma il 1994 ha dato vita a un processo di “mediasettizzazione” del dibattito politico e della politica stessa, rendendola una succursale di un salotto televisivo delle reti berlusconiane. Ha trascinato anche la sinistra in questo gioco, visto che per vent’anni parecchi suoi elettori, orfani delle logiche politiche pre 1989, di fatto si sono identificati più come antiberlusconiani che come sostenitori dell’Ulivo prima e del PD poi. Accentrare tutto su Berlusconi ha modificato radicalmente gli usi e le abitudini degli elettori di entrambi gli schieramenti, e sono gli stessi che abbiamo in eredità ancora oggi. Spesso, infatti, le analisi politiche su destra e sinistra sono “poco serie” perché tengono conto più delle azioni dei rappresentanti che dei loro elettori. È da queste ultime che credo si possa determinare la vera spaccatura tra destra e sinistra: dal modo in cui gli elettori percepiscono, seguono e giudicano i loro leader.
Da quando ho memoria politica, quindi indicativamente dalla seconda metà degli anni Novanta e in modo più nitido con l’arrivo del nuovo millennio, ho conosciuto pochi elettori di sinistra fieri dei propri rappresentanti. D’altronde non lo sono quasi mai stato nemmeno io. In passato ero persino invidioso della fedeltà cieca dell’altra fazione, dove Berlusconi era percepito a giorni alterni come un dio, un amico di famiglia, un leader illuminato, il presidente operaio, un grande statista. Nonostante tutto. Già negli anni Novanta, invece, i leader di centrosinistra erano criticati principalmente dai loro stessi elettori. Occhetto per molti era “il traditore della Bolognina”, Prodi veniva considerato troppo centrista e il suo passato da democristiano di ferro non era visto di buon occhio. Persino D’Alema, proveniente dal PCI, stentava a “dire qualcosa di sinistra”. Da una parte c’era una massa ammaliata – o assuefatta, potrebbe sostenere maliziosamente qualcuno – al suo leader; dall’altra c’era il caos.
Nel 2024 non è cambiato granché. L’ultimo lustro è stato caratterizzato dalle ascese a destra di Salvini e successivamente di Meloni, e lo spartito è rimasto lo stesso dell’epoca berlusconiana: la destra non discute il suo leader. È un’adorazione quasi da adepti di una setta, da seguaci di un culto che si tramanda a prescindere dalla tonalità di chi arriva al vertice, che sia l’azzurro di Forza Italia, il verde della Lega o il nero di Fratelli d’Italia. Non nascondiamoci: l’elettorato di destra è molto più compatto di quello di sinistra. Credo che il fatto fondamentale sia la crisi di rappresentanza e d’identità a sinistra, nonché la scelta di segretari spesso poco carismatici. Politici come Letta o Zingaretti non sono mai stati degli agitatori delle masse, e Renzi è stato così divisivo da essere considerato quasi un cavallo di Troia all’interno del PD. Nessuno si è infatti stupito della sua successiva svolta al centro. Solo Bersani è forse stato apprezzato con un po’ più di convinzione, anche per la sua aura da vecchie Feste dell’Unità, circoli di provincia, dibattiti in stile Berlinguer ti voglio bene. Prima di essere stato “trombato” dal suo stesso partito.
A destra non ci sono scossoni del genere: Meloni e Salvini sono il loro partito. Addirittura Salvini ha cambiato il nome da Lega Nord a Lega per Salvini premier – sì, è questo il nome ufficiale del partito. Nonostante sia passato dal periodo della sbornia del 34% delle Europee del 2019, con conseguente richiesta dei pieni poteri, all’abisso sotto il 10%, lui per i suoi seguaci resta “il capitano”. Ogni tanto qualcuno chiede timidamente un cambio della guardia, una Lega targata Zaia o Giorgetti, ma sono più editoriali di giornalisti che richieste degli elettori, anche se sono rimasti in pochi. Usando un’espressione calcistica, i leader di destra non si discutono, si amano. Ogni tanto provo a cercare tra i commenti sui social di Salvini qualche critica interna. Niente, soltanto “noi” di sinistra che lo perculiamo prima che il suo social media manager non cancelli il commento. Per Meloni è lo stesso, nonostante la luna di miele con gli italiani stia progressivamente finendo. Ma non con i suoi elettori. Lei resta comunque “Giorgia”, abilissima a far contenti sia i nostalgici sia i moderati di destra atlantisti e liberali. E qui torniamo a Mediaset: come nei suoi reality, anche in politica vige la regola del televoto più che del voto alle urne, con la presunta “umanità” del leader, strategia sempre vincente, a rinsaldare il rapporto tra spettatori – oops, elettori – e chi ha la pretesa di guidarli come un generale. Non contano più le riforme, le proposte di legge, le azioni politiche: la massa va conquistata e mantenuta attraverso la versione distorta dell’empatia. Come se stessimo parlando, appunto, di un concorrente del Grande Fratello e non di una presidente del Consiglio.
Se gli elettori di destra hanno mantenuto l’imprinting berlusconiano anche con i leader successivi, quelli di sinistra non hanno ancora capito “cosa essere”, una volta smessi gli abiti da antiberlusconiani. Forse il primo, vero cenno di cambiamento c’è stato con la candidatura alle primarie del PD di Elly Schlein. La base, ovvero gli iscritti, aveva dato la preferenza a Bonaccini. Il resto dell’elettorato ha virato su Schlein perché per una volta si è riconosciuto in una potenziale leader. Credo che il motivo risieda nel fatto che Schlein abbia molti tratti in comune con l’elettore medio del centrosinistra, e uno su tutti: aver mandato a fanculo almeno una volta nella vita il PD. Nel 2015, infatti, abbandonò il partito in piena era renziana. Già negli anni precedenti era stata attivista di OccupyPD, con le sedi del partito occupate da giovani dem delusi dalle scelte dirigenziali. Nel 2015 si arrese denunciando le carenze del partito su temi come precarietà, diritti civili e difesa dell’ambiente, definendosi indignata per “l’ingresso nel partito di figure che abbiamo sempre combattuto, ex fascisti, ex berlusconiani, affaristi”. Per la prima volta gli elettori del PD hanno potuto esclamare: “È come noi”. E l’hanno fatta diventare segretaria.
Anche in questo caso, l’elettorato non l’ha messa su un piedistallo e alle prime difficoltà sono arrivate le critiche. Io stesso ho considerato molto debole la sua opposizione al governo Meloni, e sui social i commenti dei suoi sostenitori si potevano riassumere con un “Elly, dovevi rivoluzionare il partito, non diventare come loro”. Poi sono arrivate le europee, e a quanto pare Schlein è animale da campagna elettorale. Ha azzeccato tutte le mosse e come conseguenza ha ottenuto un ottimo – e sorprendente – risultato. Per poi tornare in un semi-letargo, ma c’è da dire che d’estate tutta la politica si ferma, quindi consideriamola più “rimandata a settembre”. Il suo merito è comunque quello di aver ringiovanito l’elettorato. È un’arma a doppio taglio, perché le nuove generazioni sono molto meno indulgenti, e lei è la prima a saperlo. Anche perché è un fenomeno mondiale. Anche all’estero, infatti, il rapporto tra politici ed elettori è diverso tra destra e sinistra. I democratici USA hanno bersagliato Biden durante tutta la sua presidenza, fino a invitarlo – con le buone e non solo – a farsi da parte e ritirarsi in piena campagna elettorale. I sostenitori di Trump invece sono come quelli di Berlusconi: lui ha ragione a prescindere. Se becca una condanna è colpa dell’accanimento dei giudici, se pronuncia frasi orrende va bene lo stesso. Anche lui non si discute, si ama. È la rappresentazione massima del personaggio di destra che non conosce contestazioni interne perché agisce da sultano più che da leader di partito, da icona martirizzata più che da politico. E, purtroppo, sembra una strategia vincente.
Anche i personaggi pubblici schierati da una parte politica, così come gli elettori, seguono lo stesso andazzo. A destra abbiamo avuto per anni i lacchè di Silvio, adesso quelli di Meloni che elemosinano un programma in RAI in cambio di encomi di ogni tipo. A sinistra i sostenitori di spicco sono saliti sui palchi dei congressi per comunicare alle piazze stracolme che “con questi dirigenti non vinceremo mai”. Ricordo anche un episodio di Pif, persona di centrosinistra, quando si scagliò contro Rosario Crocetta, unico presidente della Regione Sicilia non di destra in questi decenni. Di fronte ai suoi evidenti errori politici, probabilmente se fosse stato di destra sarebbe stato “protetto” dai suoi elettori. Pif invece gli urlò contro indignato, manifestando tutta la sua riprovazione e invitandolo alle dimissioni, per una vicenda riguardante la tutela delle persone disabili. Perché “noi” siamo abituati a mettere in discussione, in alcune occasioni anche in modo tafazziano, i nostri rappresentanti.
Forse fa parte di una natura meno avvezza all’ammirazione “del capo”, un retaggio dell’antiberlusconismo che ci portiamo dietro da quel 1994. Non sempre è un bene, perché questo comporta una frammentazione dell’elettorato, un maggiore astensionismo o voti dati tappandosi il naso. Credo però che sia un atto costruttivo a livello civico, un modo per dimostrare di avere gli anticorpi contro gli assolutismi, l’idolatria e l’accentramento dei poteri politici su una persona. Eppure continuo a invidiare l’innocenza, o l’ingenuità, con cui gli elettori di destra non mettono mai in discussione i loro leader. Forse perché è un senso di appartenenza che un trentenne di sinistra non ha mai avuto a causa del contesto storico e politico che ha vissuto. L’anima riottosa deve partire proprio dall’iconoclastia, dalle azioni per dissacrare chi si erge a santo, compresi i leader politici. Quindi continueremo, volenti o nolenti, a gettare letame sui nostri rappresentanti mentre a destra i seguaci terranno nel portafoglio il santino del politico di turno. Tanto possono sempre cambiarlo. Dopo Berlusconi, Salvini e Meloni avranno un altro dio da venerare. Noi un altro bersaglio da colpire.