Perché le donne devono dimostrare di essere più forti degli uomini per essere elette in politica?

Il 5 marzo la senatrice Elizabeth Warren si è ritirata dalla corsa per le primarie democratiche negli Stati Uniti. “Questa mattina ho annunciato la decisione di sospendere la mia campagna per le elezioni presidenziali. Continuerò a lottare, per tutti i lavoratori che sono stati trattati come l’ultima ruota del carro” ha detto parlando da Cambridge, nel suo Stato di origine, il Massachusetts.

Warren era l’ultima figura femminile ancora in gara per sfidare Donald Trump il prossimo novembre e prendersi la Casa Bianca: una prima volta storica, a cui l’America evidentemente non è pronta. Le donne, infatti, non riescono ancora a imporsi come reali minacce nei confronti di un avversario politico dell’altro sesso e negli Stati Uniti – così come in molti altri Paesi – l’opinione pubblica non le considera alternative abbastanza forti, decise, sicure per sfidare un maschio e vincere: insomma, non le vede come “eleggibili”. Gli Usa non sono i soli a perpetrare questo tipo di discriminazione: secondo l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite, a livello globale il 53% della popolazione è ancora convinto che gli uomini rappresentino un’opzione migliore quando si tratta di leadership politica.

Elizabeth Warren

Grande assente (per ora) dal dibattito italiano, il tema dell’eleggibilità è ricorrente nella politica statunitense. La Treccani definisce il concetto come “l’insieme di condizioni per le quali un candidato a una carica può essere validamente eletto; soprattutto con riferimento alle elezioni politiche e amministrative”. Requisiti per aggiudicarsi il titolo di “eleggibile” sono, ad esempio, un forte presenza scenica, capacità di parlare in pubblico in modo convincente, possibilità di attrarre una platea di elettori eterogenea per età, classe sociale ed etnia, uso frequente di slogan d’effetto e facilmente memorizzabili. Utili ma non indispensabili, poi, un buon curriculum e qualche conoscenza di politica interna ed estera, se capita.

In questa cornice, le donne partono spesso svantaggiate. A lungo considerate il “sesso debole”, si imbattono ora nel difficile compito di riuscire a plasmare un’immagine politica convincente quando, dopo il dibattito, la maggior parte dei commenti si soffermera sulla gonna indossata al posto del pantalone, il colore del tailleur sbagliato, il taglio di capelli troppo lungo o troppo corto, eccetera. E poi i figli, la famiglia da cui sarà inevitabile doversi allontanare forse per troppo tempo, i doveri da moglie e da madre abbandonati. Una donna che si candida alla presidenza non deve semplicemente dimostrare di essere la scelta giusta, ma deve anche giustificare la sua candidatura, a differenza dei rivali maschi. In questo circolo vizioso le competenze tecniche vengono spesso relegate ai margini per fare spazio all’ultima battuta pungente o alla frase fuori luogo scappata nel corso di un fuorionda. Per una donna, quindi, avere alle spalle una carriera decennale in politica, nella magistratura o nella Difesa potrebbe non essere sufficiente a renderla una minaccia per gli altri candidati che condividono con lei la corsa alla nomination. Esempio lampante e prova di questo ragionamento è proprio Elizabeth Warren.

Warren ha 70 anni, è nata in Oklahoma ma nel 2012 è stata eletta al Senato per rappresentare il Massachusetts, dove insegnava diritto niente meno che ad Harvard. Dopo un passato da repubblicana a sostegno del laissez-faire economico, è oggi conosciuta come uno dei principali esperti sui temi della bancarotta e sulla tutela dei lavoratori. Durante l’era Obama è stata Consigliera speciale al Dipartimento del Tesoro. Ha lavorato senza sosta alla formulazione del Dodd-Frank Act, una serie di intricati provvedimenti mirati a regolamentare il labirinto della finanza statunitense dopo la crisi dei mutui che ha messo in ginocchio il Paese e costretto molte banche a chiudere i battenti. Nel 2010, dalle ceneri di un’economia crollata ha creato il Fondo per la Protezione dei Consumatori. Sebbene molti pensassero che il ruolo di Direttrice le sarebbe spettato di diritto, la carica fu offerta all’allora Attorney General dell’Ohio, Richard Cordray. Galeotti furono anche i frequenti scontri con il Segretario del Tesoro Timothy Geithner, che la considerava troppo severa nei confronti di Wall Street e, forse, la sua figura minuta, la voce sempre pacata, la conoscenza fin troppo profonda di un tema tanto complesso veniva considerati sintomi inconfondibili di scarsa eleggibilità.

Alle primarie 2020, Warren è partita con il piede di guerra: “Ho un piano per quello” è presto diventato il suo motto e, a differenza di molti altri slogan, era vero. Il suo team ha lavorato instancabilmente per produrre idee e progetti relativi ai problemi del Paese: dalla riforma del sistema sanitario – il celebre “Medicare for All”, ripreso dalle idee del senatore indipendente Bernie Sanders ma poi progressivamente limato fino a renderlo “una scelta” per i cittadini, e non un obbligo –  e fiscale al razzismo, l’ambiente, le discriminazioni sociali fino alla gestione del debito studentesco, ormai fuori controllo.

Bernie Sanders

In autunno, prima che i seggi elettorali fossero effettivamente aperti, le proiezioni positive in vari sondaggi nazionali hanno contribuito a rappresentare Warren come una candidata di punta che, effettivamente, forse magari avrebbe potuto farcela. Insomma, aveva qualche chance. Poi, un declino lento, senza colpi di scena o cadute di stile clamorose. I risultati negativi alle prime votazioni hanno portato alla stoccata del Super Tuesday, dove è arrivata terza anche nel suo stesso Massachusetts rendendo ormai chiaro che non sarebbe mai riuscita a battere gli altri candidati e in particolar modo Trump. Il ritiro, la resa alla maledizione dell’ineleggibilità scaturita forse anche dalle ostilità non troppo velate dei suoi avversari, generate da competenze fin troppo solide per essere votate in un’America bipolare divisa tra Repubblicani e Democratici.

Le elezioni di novembre segneranno l’unica reale occasione per cambiare il corso della politica americana degli ultimi quattro anni. Il candidato democratico che uscirà dalle primarie, quindi, dovrà essere l’unico in grado di vincere contro Donald Trump: serve una personalità eleggibile, che rappresenti una minaccia tangibile per il Presidente in carica. In questo contesto, l’idea di avere una donna come rappresentante del partito nella sfida decisiva spaventa, e gli americani hanno paura di sprecare il proprio voto scegliendo una candidata che poi, a novembre, pronuncerà un discorso di sconfitta e cederà il passo ad altri quattro anni di governo repubblicano.

La possibilità di avere una donna alla guida degli Stati Uniti non è mai stata così vicina come quattro anni fa, nel 2016. Hillary Clinton aveva vinto le primarie e condotto un’estenuante campagna contro Trump. Poi, però, l’8 novembre, mentre il tycoon festeggiava nella sua New York, Clinton saliva sul palco insieme al marito Bill per annunciare la debacle. Quest’anno, i democratici non vogliono rischiare.

Hillary Clinton

Già allora, la rappresentazione mediatica di Hillary Clinton – nel confronto con Bernie Sanders prima e Donald Trump poi – era stata fortemente influenzata dai dubbi che ruotavano intorno al tema dell’eleggibilità. “Davvero Clinton ha le carte in regola per sconfiggere Trump?” si chiedevano increduli i giornali nel rush finale delle primarie dem, definendo la sua eventuale candidatura un “azzardo” potenzialmente fatale. Allo stesso tempo, però, la stessa Clinton ha tentato di sfruttare a suo vantaggio questo tema spinoso, affermando che le idee radicali di Sanders lo rendevano ineleggibile per la maggior parte degli americani.

In realtà, come prevedibile, il pregiudizio secondo cui le donne non sono eleggibili è stato ampiamente smentito da fatti. Alle elezioni di metà mandato del 2018 sono state elette al Congresso 117 donne, un record storico. Tra queste è impossibile non menzionare Alexandria Ocasio-Cortez, che ha sbaragliato il rivale Joseph Crowley nel 14esimo distretto di New York; Ilhan Omar e Rashida Tlaib, le prime donne musulmane a essere elette, o le prime native americane Deb Haaland e Sharice Davids. Una tornata elettorale da record che ha forse prodotto qualche crepa nel soffitto di cristallo, senza riuscire a sfondarlo del tutto. Ovviamente, molte delle donne in corsa hanno sfidato un candidato dell’altro sesso, e hanno vinto: la prova che l’eleggibilità non ha genere.

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