Tra le tante abolizioni proclamate in maniera trionfale dal governo del cambiamento c’è sicuramente quella della precarietà. Il lavoro precario, che ha portato divisione, insicurezza ed esasperazione nel mercato italiano, è stato detto, è stato debellato grazie all’ormai famoso decreto dignità. Sì, è vero, il primo significativo provvedimento targato M5S ha un ambito di applicazione molto esteso: disincentivare il gioco di azzardo, operare una serie di semplificazioni fiscali e, fra una cosa e l’altra, anche incentivare le assunzioni stabili dei lavoratori dipendenti.
Negli ultimi cinque anni il mercato del lavoro è cambiato, e non poco. Il Jobs Act del 2014 ha liberalizzato le assunzioni a tempo determinato, e la libertà di assumere dipendenti a termine ha dato il via a una crescita esponenziale della precarietà in Italia, bilanciata però da un sensibile aumento dell’occupazione. Ed è per contrastare l’incertezza dilagante tra le fasce più deboli della popolazione che il ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Luigi Di Maio ha deciso di limitare la possibilità di utilizzare i contratti di lavoro a tempo determinato, con la speranza di creare più occupazione stabile. La durata massima del rapporto a termine è stata ridotta dai 36 mesi originari a 24. Inoltre, per i rapporti di oltre 12 mesi è stato reintrodotto l’obbligo da parte del datore di lavoro di specificare le ragioni di carattere organizzativo, produttivo o sostitutivo alla base dell’assunzione.
Dopo un complicato periodo transitorio, il decreto dignità è divenuto pienamente operativo dallo scorso novembre. Così, i dati Istat riferiti al gennaio 2019 cominciano a raccontare i primi effetti portati dall’ennesima riforma del diritto del lavoro in Italia. La forza lavoro occupata ha registrato un lieve aumento, crescendo dello 0,1%. La buona notizia è rappresentata dall’aumento di contratti a tempo indeterminato, che sono cresciuti di 56mila unità. Continuano a diminuire, invece, le assunzioni di dipendenti a termine e, complessivamente, non si registra un aumento significativo dell’occupazione. Un ulteriore conferma, semmai ce ne fosse bisogno, che i posti di lavoro non si creano togliendo o garantendo diritti.
I dati di gennaio dell’Osservatorio sul precariato dell’Inps sembrano dimostrare la tendenza a una trasformazione del mercato del lavoro con un significativo incremento di contratti lavorativi a tempo indeterminato. Ma non si può parlare di vittoria, anzi. L’aumento del lavoro stabile, infatti, non è stato accompagnato da una politica industriale in grado di aumentare la fiducia e gli investimenti delle imprese. Le conseguenze sono molteplici: il mancato rinnovo di numerosi contratti a tempo determinato, il rallentamento generale delle assunzioni e il conseguente aumento delle persone in cerca di occupazione. Nel periodo che va dal novembre 2018 al gennaio 2019, infatti, l’occupazione ha registrato un lieve calo rispetto ai tre mesi precedenti. A farne le spese, ancora una volta, sono le donne e i giovani.
La popolazione femminile e gli under 25 infatti rimangono i soggetti più vulnerabili del mercato del lavoro in Italia. La stabilizzazione rilevata dall’Inps riguarda principalmente gli individui di sesso maschile già inseriti nella realtà produttiva del Paese. I soggetti ai margini del mondo lavorativo continuano a restare privi di diritti, di garanzie e contratti. Il nostro tasso di occupazione femminile è tra i più bassi di Europa – le donne occupate in 10 anni solo calate di 6mila unità – con la disoccupazione giovanile che rimane intorno a un intollerabile 33% – con un aumento dello 0,3% rispetto a dicembre.
Per combattere efficacemente la precarietà bisognerebbe concentrarsi su iniziative che includano nel mercato del lavoro i soggetti che fino ad oggi sono rimasti in gran parte esclusi. A questo proposito, le iniziative messe in campo dal Ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico appaiono insufficienti. Prendiamo ad esempio la più famosa: il reddito di cittadinanza. Somiglia sempre di più a un sussidio e sempre di meno a una misura di politica attiva del lavoro. L’assunzione dei cosiddetti Navigator è in alto mare. I centri per l’impiego sono impreparati e non hanno le risorse necessarie per gestire le centinaia di migliaia di persone che dovrebbero essere accompagnate verso una nuova occupazione. L’unica cosa che sembra essere certa sono i soldi che arriveranno nelle tasche degli italiani poco prima delle elezioni europee. Sembrerebbe che, dopo gli 80 euro di Renzi, anche il governo del cambiamento abbia voluto foraggiare la propria base elettorale in vista di un importante appuntamento alle urne.
Inoltre, in una fase di contrazione dell’economia come quella attuale, il decreto dignità potrebbe essere annullato da un’altra misura varata dal governo del cambiamento. La flat tax ha ridotto significativamente la tassazione sulle piccole partite Iva, rendendo più conveniente per un datore di lavoro rivolgersi a un collaboratore con partita Iva che pagare stipendio e contributi a un dipendente assunto con contratto di lavoro dipendente. Tutte le tutele inserite nel decreto dignità potrebbero così essere vanificate a causa delle difficoltà economiche delle imprese italiane.
I diritti dei lavoratori stanno alla base di ogni Paese civile, ma se il lavoro non c’è, parlare a sproposito di tali diritti diventa inutile. Il decreto dignità cerca di aumentare la forza contrattuale dei lavoratori nei confronti delle aziende, ma non c’è traccia di un percorso mirato a includere le donne e giovani nel mercato del lavoro. Ed è facile capire il perché; per dare più opportunità alle donne, bisognerebbe garantire un maggiore equilibrio tra la vita professionale e quella privata, incentivare il congedo di paternità, condurre una campagna di sensibilizzazione per colmare le inaccettabili differenze salariali che si registrano tra uomini e donne. Per includere i giovani nelle realtà produttive, bisognerebbe creare un sistema di apprendistato efficace, contrastare il ricorso a tirocini farlocchi, garantire il giusto compenso a chi inizia a lavorare dopo essersi formato sui libri. Ma si tratta di interventi complessi che richiederebbero mesi, se non anni, per la loro effettiva implementazione. Troppo tempo per garantirsi la possibilità di un post su Facebook o una foto dal balcone.
Il governo del cambiamento non può rischiare di perdere consenso con azioni di carattere generale. È molto meglio continuare con gli spot elettorali senza migliorare veramente la condizione degli esclusi in Italia. Per il cambiamento si vedrà.