Nel 1948, con la pubblicazione della Dichiarazione universale dei diritti umani, la possibilità di esprimere liberamente il proprio pensiero senza subire ripercussioni fu uno dei valori maggiormente in grado di segnare il passaggio dai regimi dittatoriali del primo Novecento alle democrazie europee del secondo dopoguerra. Settant’anni più tardi, alla digitalizzazione del sistema mediatico e al conseguente ampliamento della possibilità di diffondere opinioni e informazioni è seguito, tuttavia, anche il parallelo restringimento di princìpi come la libertà di manifestare il proprio dissenso, il diritto di poter disporre di un’informazione corretta e oggettiva e, non ultimo, l‘indipendenza dei media dall’ingerenza statale e dei privati. Le ragioni alla base del fenomeno – più o meno esplicito a seconda del contesto politico e culturale in cui si sviluppa – seguono due diverse matrici: la pericolosità sempre più spesso intrinsecamente associata all’attività giornalistica, da un lato; la mancata regolazione delle informazioni condivise sui social network, dall’altro.
Come se ciò non bastasse, secondo quanto evidenziato dall’ultimo World Press Freedom Index (Wpfi) pubblicato da Reporters senza frontiere, l’ampliarsi dell’asimmetria, sul piano dell’informazione, fra società democratiche e regimi dispotici – con le prime fondate sul rispetto della libertà di critica e del pluralismo dei media, i secondi sulla strumentalizzazione del sistema mediatico da parte del Governo – sta alimentando una sempre maggior tensione sul piano internazionale. L’occupazione russa dell’Ucraina riflette in pieno questo processo: il fatto che la quasi totalità dei media russi, comprese le piattaforme online, sia di fatto in mano al Cremlino ha infatti consentito al presidente Putin di accompagnare l’invasione dell’Ucraina con una vera e propria guerra di propaganda, addirittura abolendo la parola “guerra” per sostituirla con sostantivi quali “operazione speciale” o “attacco preventivo”. Nonostante i tentativi dei media occidentali di aggirare la censura, non si può dire che tale approccio non abbia sortito alcun effetto. Per quanto sia molto difficile, se non impossibile, valutare con precisione l’opinione di chi vive sotto una dittatura, sembra che, nelle prime fasi del conflitto, oltre la metà della popolazione russa approvasse l’invasione dell’Ucraina – una percentuale poi crollata nei mesi successivi, probabilmente anche a causa delle sanzioni europee.
Sempre secondo il Wpfi, mentre gli ultimi posti in classifica rimangono prerogativa di Cina, Russia e alcuni Stati del cosiddetto Medio Oriente, il continente europeo è quello in cui le disparità fra i diversi Paesi in termini di libertà di stampa appaiono più evidenti. Alla base di questa polarizzazione – con Norvegia, Danimarca e Svezia ai primi tre posti, seguiti nella prima decina da Estonia, Finlandia, Irlanda e Portogallo, Costa Rica, Lituania e Liechtenstein, a fronte del 58esimo dell’Italia, del 91esimo della Bulgaria e addirittura il 108esimo della Grecia – si ritrovano, in particolare, tre diverse tendenze: l’omicidio di alcuni giornalisti anche nel territorio UE (a livello globale se ne contanto 57, il 18.8% in più rispetto al 2021); le sempre più numerose aggressioni subìte dagli stessi nell’ambito di alcune manifestazioni pubbliche; e le crescenti pressioni sulla stampa esercitate da alcuni Governi, come quelli di Polonia, Ungheria e Albania – tutti Paesi in cui l’indipendenza dei media dalle influenze governative è stata definita “ad alto rischio” anche dal Media Pluralism Monitor 2022, a causa della forte interferenza esercitata dalla politica sull’allocazione delle risorse e sulla creazione delle notizie.
Dall’altra parte, nemmeno nei Paesi democratici la libertà di espressione può dirsi davvero tutelata: lo conferma la vicenda del giornalista australiano e fondatore della Ong WikiLeaks Julian Assange, finalista per l’assegnazione del Premio Sacharov per la libertà di pensiero, divenuto noto per aver svelato, nel 2010, una serie di documenti segreti del Pentagono relativi ad alcuni crimini di guerra compiuti in Afghanistan e Iraq, pubblicandoli in modo anonimo sul proprio sito internet (il cosiddetto “Cablegate”). Incriminato per spionaggio negli Stati Uniti, dal 2019 Assange vive in detenzione preventiva nel carcere Belmarsh di Londra, dopo essersi rifugiato per sette anni nell’ambasciata britannica dell’Ecuador. Lo scorso giugno, l’ex ministra dell’Interno del Regno Unito Priti Patel ne ha infine autorizzato l’estradizione negli Usa, dove Assange rischierebbe una condanna fino a 175 anni di carcere; in attesa degli esiti del ricorso, la salute fisica e mentale del giornalista è sempre più precaria.
Lo scorso 28 novembre, le cinque testate internazionali che dodici anni fa avevano partecipato alla pubblicazione dei 251mila documenti incriminati – il New York Times, il Guardian, Le Monde, El País e Der Spiegel – hanno co-firmato una lettera intitolata “Pubblicare non è un reato”, chiedendo l’immediata liberazione di Assange e definendo la vicenda “un pericoloso precedente per la tutela della libertà di stampa”; un’opinione, questa, condivisa non solo dalla Federazione internazionale dei giornalisti e dalla società civile, ma anche da giuristi ed esponenti politici di tutto il mondo. Paradossalmente – osserva l’avvocata, attivista e moglie di Assange, Stella Moris, presente nei giorni scorsi al Parlamento Europeo in rappresentanza del marito –, anche a fronte di un eventuale processo, il fatto che Assange non sia cittadino americano gli precluderebbe perfino la possibilità di accedere ai vantaggi legali garantiti dal primo emendamento statunitense, relativo alla tutela della libertà di espressione e di stampa. “La criminalizzazione dell’attività di Assange, comprese le sue infinite complicazioni”, conclude Morris, “rischierebbe, in futuro, di ripetersi ai danni di qualsiasi altro giornalista dell’UE”, sferrando così un duro colpo ai princìpi democratici a fondamento della stessa Unione.
Consapevole di questo rischio, da anni il Parlamento Europeo agisce in funzione di una sempre maggior tutela della libertà di espressione e d’informazione, sancite, oltre che dall’articolo 11 della Carta di Nizza, anche dalla Convenzione europea dei diritti umani. Risale a novembre 2021, per esempio, la proposta di adottare una serie di misure legislative contro l’uso improprio delle SLAPP (Strategic Lawsuit Against Public Participation), definite “azioni legali spesso abusive, infondate o basate su rivendicazioni esagerate, che mirano a screditare, ricattare e costringere al silenzio i loro bersagli”, generalmente giornalisti e Ong. A ottobre di quest’anno, l’europarlamento ha invece promosso la seconda edizione del premio “Daphne Caruana Galizia” – in onore dell’omonima giornalista maltese uccisa nel 2017, probabilmente a causa degli scandali sollevati dalle sue inchieste –, vinto dai giornalisti Clément Di Roma and Carol Valade per il documentario The Central African Republic under Russian influence e dedicato alla valorizzazione di un giornalismo che “promuova i valori fondamentali dell’UE, quali dignità umana, libertà e democrazia”. Princìpi ai quali dovrebbe tendere, secondo la capo delegazione del M5S al Parlamento Ue e sostenitrice di Assange per il conferimento del premio Sakharov, Tiziana Beghin, l’attività dell’intero apparato mediatico: “Il ruolo dei media”, afferma Beghin, “è quello di diffondere la verità, fare da contraltare rispetto a quanto rimane oscurato. Anche se scomoda, la verità deve rimanere l’unico punto di riferimento, nell’interesse di tutti”.
Ancora, risale sempre al 2022, nel marzo scorso, l’approvazione di una risoluzione volta a esortare l’UE a elaborare una strategia comune per far fronte alle ingerenze straniere – legate soprattutto agli accordi di cooperazione stipulati fra alcuni partiti sovranisti e i regimi autocratici di Russia e Cina – e alle campagne di manipolazione delle informazioni, valorizzando, per esempio, il lavoro di fact checker e media indipendenti. La digitalizzazione del sistema mediatico, nota infatti l’europarlamento, ha significativamente “accelerato e aggravato la diffusione della disinformazione, consapevole e inconsapevole”; in altre parole, se da un lato l’avvento delle piattaforme digitali ha contribuito a democratizzare l’accesso alle informazioni, moltiplicando per i giornalisti le possibilità di esprimersi e per gli utenti le opportunità di rimanere aggiornati sugli eventi del mondo, la quasi totale assenza di filtri avrebbe favorito, anche nei Paesi democratici, la parziale sostituzione dei fatti con le opinioni e la conseguente diffusione di “contenuti polarizzanti, radicalizzanti e discriminatori”, quando non vere e proprie fake news.
Proprio alla “Tutela dei diritti fondamentali nell’era digitale”, compreso l’accesso a un’informazione corretta, è stata dedicata anche l’ultima relazione della Commissione Europea – con il sostegno del Parlamento Europeo – dedicata al monitoraggio dei progressi compiuti nell’ambito dell’applicazione della Carta di Nizza. Fra le sfide individuate nel documento si ritrovano, in particolare, il contrasto del cosiddetto “linguaggio d’odio” (hate speech) – coinvolto anche nella recente proposta del Parlamento Europeo di includere l’incitamento all’odio nell’elenco dei crimini dell’UE – e la necessità di garantire un utilizzo corretto e trasparente dei nuovi sistemi di intelligenza artificiale. Il fatto che i media digitali siano strutturalmente basati sull’utilizzo di algoritmi, infatti, pone importanti implicazioni relative non solo al diritto alla privacy e alla protezione dei dati, ma anche allo sviluppo delle cosiddette “eco-chambers”, ambienti virtuali all’interno dei quali i contenuti proposti all’utente, compresi i profili con i quali interagire, vengono selezionati sulla base delle sue ricerche e interazioni passate e rispecchiano, quindi, le sue medesime convinzioni e ideologie, favorendo così la polarizzazione delle opinioni e ostacolando, di fatto, il confronto democratico.
Il potere delle piattaforme digitali, evidente nella loro capacità di sopprimere il diritto all’informazione di un intero popolo quanto di favorire il contraddittorio, la creazione di legami e, non ultimo, l’organizzazione del dissenso, non dipende dalla loro pericolosità intrinseca, quanto piuttosto delle intenzioni con cui gli esseri umani scelgono di approcciarsi alla loro progettazione e al loro utilizzo. Una questione ulteriormente complicata dal fatto che, anche laddove la libertà di espressione è legalmente tutelata, il funzionamento dei social network dipende in buona misura scelte delle aziende private che li possiedono, il cui controllo sulla libertà di parola degli utenti ha recentemente dimostrato di poter raggiungere livelli preoccupanti: ne sono esempio la sospensione e il successivo ripristino, da parte del CEO di Twitter Elon Musk, dei profili di alcuni giornalisti attivi sulla piattaforma, colpevoli, a suo dire, di aver tracciato in tempo reale il percorso compiuto dal suo jet privato. I diritti fondamentali della popolazione non sono compatibili con l’abuso di potere esercitato da Governi, istituzioni o multinazionali con l’unico scopo di tutelare i propri interessi. Le sfide a cui l’UE è chiamata a rispondere si sviluppano quindi su un doppio binario: la difesa del diritto di critica e del giornalismo indipendente, da un lato; la lotta alla censura e alla disinformazione, dall’altro.