No, gli USA non sono la democrazia più evoluta al mondo - THE VISION

L’assalto al Congresso statunitense da parte dei sostenitori di Donald Trump viene descritto sui media e da molti politici occidentali come un attacco interno senza precedenti contro la “maggiore democrazia al mondo”: una tradizione così forte ed evoluta in grado, si commenta, di resistere anche alla sfida degli autoritarismi. La retorica degli Stati Uniti come modello globale per l’affermazione dei sistemi democratici – un pilastro dei discorsi anche dell’ex-presidente Barack Obama e di gran parte dei suoi predecessori – ha sempre rappresentato il leitmotiv anche dei leader europei. Dopo i fatti di Capitol Hill il premier britannico Boris Johnson ha infatti dichiarato che gli Stati Uniti “rappresentano la democrazia in tutto il mondo” e il presidente del Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo dei 27 Stati dell’Unione europea, Charles Michel, ha espresso turbamento per le scene del genere nel “tempio della democrazia”. Queste dichiarazioni, insieme a tante altre e a una diffusa immagine che si è impressa nell’opinione pubblica, però, non sembrano tenere conto delle ingiustizie interne – e ben lontane dagli ideali democratici – che affliggono da sempre gli Stati Uniti e che non sono mai state sanate. La democrazia statunitense, infatti, si è trasformata in un simbolo e come tale non corrisponde più a una realtà. 

Gli Stati Uniti sono una potenza estremamente contraddittoria dove da tempo l’idea di democrazia si è mescolata e confusa a quella di liberalità ed è diventata in un certo senso inscindibile dai valori del capitalismo. Così, l’enfasi sulla portata di quella che dovrebbe essere la più “evoluta” democrazia statunitense non sembra tener conto in alcun modo dei circa 330 milioni di cittadini ai quali non vengono ancora garantiti i diritti all’istruzione e all’assistenza sanitaria universali e gratuite; per non parlare della pena di morte, ancora in vigore e praticata sia dal governo federale da 16 Stati federati (nel 2020 sono state eseguite esecuzioni in Texas, Missouri, Tennessee, Alabama, Georgia e altre dieci a livello centrale), a differenza di tutte le altre democrazie moderne. Non c’è quindi alcuna eccezionalità – se non negativa – da celebrare o da “esportare”, minando sistematicamente nel corso del Novecento gli equilibri politici internazionali, attraverso guerre dettate da interessi non esattamente etici.

I maggiori leader dell’Unione europea non possono fare finta di dimenticarsi l’endemica assenza di tutele del welfare statunitense. Anche prima dell’emergenza sanitaria del Covid-19, la prima economia al mondo spiccava infatti tra i Paesi avanzati per il record di mortalità infantile e giovanile. Uno studio del 2018 del Johns Hopkins Hospital ha ricostruito come, nell’ultimo mezzo secolo, mentre negli altri Stati dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) il rischio di morire tra i primi mesi di vita e i diciannove anni si sia gradualmente abbassato, negli Stati Uniti la probabilità di decessi in quella fascia d’età, a partire dagli anni Ottanta, sia invece aumentata del 76%. I dati sanitari raccolti tra il 2013 e il 2015 dall’Agenzia federale per il controllo e la prevenzione (Cdc) fotografano inoltre il forte divario razziale e la grande disparità interna, anche territoriale, nel tasso di mortalità infantile. Per fare un esempio: la probabilità di perdere un bambino per le donne della comunità afroamericana all’epoca oscillava tra l’8 e il 14% a seconda dei diversi Stati, a fronte di un tasso tra il 2,5 e il 7% tra le donne bianche non ispaniche e una media nazionale del 6%. Questi dati dipendono sia dall’inaccessibilità alle cure per milioni di statunitensi che non possono permettersi assicurazioni sanitarie private; sia – come si osserva in una ricerca pubblicata su Health Affairs – dalla diffusione di armi (sono circa 55 milioni gli statunitensi in possesso di armi da fuoco); sia dall’aumento degli incidenti stradali e, non ultimo, dal livello di istruzione mediamente basso della popolazione, anticamera di disagio e di emarginazione sociale.

Con l’amministrazione Trump questi indici negativi – sulla salute, sul possesso di armi, sulle discriminazioni razziali e, più in generale, sul divario tra ricchi e poveri – sono arrivati come sappiamo a un livello tale di esasperazione da portare agli scontri di piazza degli ultimi due anni tra l’estrema destra e la sinistra radicale e alle proteste di Black Lives Matter. Il profondo regime di diseguaglianza sociale ed economica che permea gli Stati Uniti e li attraversa dalle loro origini, continua a produrre contrapposizioni che generano conflitti e che rischiano oggettivamente di condurre a una guerra civile, come suggeriscono i fatti di Capitol Hill. Rapportando l’incidenza nelle zone degli Stati Uniti a maggioranza afroamericana rispetto a quelle abitate da bianchi dei contagi da Covid-19 (tre volte superiori) e di mortalità (più del doppio, secondo il monitoraggio di Apm Research Lab), il medico e docente della scuola di Salute Pubblica della Columbia University, Ashwin Vasan, parla degli Stati Uniti come una delle società “tra le più inique al mondo”, per squilibri “esistenti ben prima della pandemia”. Un Paese, denuncia, “costruito sull’eredità della schiavitù e del razzismo che ha orientato le scelte politiche, non solo recentemente, ma da lungo tempo”: la città di New York, per esempio, ha “uno dei sistemi scolastici e abitativi più segregati del Paese”. Anche le statistiche del U S Census Bureau mostrano come, ancora nel 2018, il 24% dei bianchi statunitensi possedeva una laurea, contro appena il 16% degli afroamericani e il 13% dei latinos: insieme ai numeri sulla sanità, quelli sull’istruzione sono un pessimo biglietto da visita per la democrazia statunitense.

Molte delle tensioni degli ultimi anni si possono infatti individuare a monte anche in un sistema d’istruzione ancora segnato in profondità da divisioni etniche e sociali, con una minoranza che può permettersi scuole e università private di eccellenza e meritocratiche, pagando rette di oltre 50mila dollari l’anno come Harvard o la Columbia (Almalaurea stima che anche un buon ateneo pubblico costi negli Stati Uniti circa 10 mila euro l’anno di tasse), e una gran massa di studenti che si ferma ancora alle scuole statali di basso livello, spesso prive di fondi sufficienti e insegnanti qualificati. Negli Stati Uniti, infatti, anche il sistema di finanziamento dell’istruzione pubblica indirizza la gran parte delle risorse verso le scuole e le università dei quartieri dell’upper class, negando eguali possibilità di crescita a tutti. Oltre la metà degli studenti delle scuole pubbliche statunitensi, secondo gli ultimi dati governativi del National center for education statistics (Nces) elaborati da Southern Education Foundation, proveniva da famiglie a basso reddito: una percentuale, prima del 2000, inferiore al 40% e negli anni Ottanta al 30%.

A questo si aggiunge un sistema che in 29 Stati su 50 prevede ancora la pena di morte. Dallo scorso luglio negli Stati americani sono state eseguite 10 iniezioni letali senza tenere conto delle perizie psichiatriche per appurare la capacità di intendere e di volere di soggetti fortemente disturbati e con un passato di violenze. Il rapporto del 2020 del Death penalty information center sulle esecuzioni negli Stati Uniti denuncia infatti che tutti i giustiziati di quest’anno presentavano “uno o più significativi deficit mentali o emozionali” e “al momento del crimine avevano meno di 21 anni”. Lo stesso report sottolinea come le “decisioni dei tribunali statali riflettono arbitrarietà e pregiudizi nell’applicazione della pena capitale”, in modo “fazioso e razzista, con protezioni legali inadeguate e pratiche anomale da parte del governo federale”. Una prassi disumana oltre che sbrigativa e discriminatoria, che negli Usa equivale all’eliminazione sistematica di detenuti ancora giovani, giudicati senza attenuanti e privati del tutto della possibilità di un recupero ossia del diritto, con una giustizia civile, una volta espiata la pena anche al reinserimento nella società.

A cinquant’anni dalla famosa dichiarazione sul Pil del candidato alle Presidenziali Robert Kennedy – ucciso nel 1968, cinque anni dopo l’assassinio a Dallas del fratello – gli Stati Uniti sono proprio come “Bob” denunciava sarebbero degenerati a causa del “mero perseguimento del bene economico e nell’accumulare senza fine beni terreni”: una “grande” potenza economica che “non tiene conto della qualità della salute” delle famiglie, né della “qualità della loro educazione”; dove si “valorizza la violenza per vendere prodotti violenti ai bambini” e dove, al contrario di Paesi meno sviluppati e più poveri, i livelli di sanità, educazione, sicurezza invece che migliorare, dal secondo dopoguerra, sono ulteriormente peggiorati. Non per niente l’ultima presidenza è finita nel modo peggiore possibile, con un attacco dichiarato alle istituzioni democratiche, che ne mette in discussione le stesse istanze. In un clima del genere è sempre più urgente una riflessione su cosa gli Stati Uniti rappresentano realmente per le altre democrazie del mondo: un sistema indebolito e in crisi che deve rimettere al centro del dibattito pubblico l’uguaglianza di tutti i suoi cittadini per tentare di non collassare e di recuperare il progetto con cui è stato fondato. 

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