Alla destra non basta una leader femminile, ha da sempre un grave problema con i diritti delle donne - THE VISION

La settimana scorsa i cittadini di Verona si sono svegliati con una lettera particolare nella cassetta della posta. Il contenuto era il classico volantino elettorale nel quale si esortava a barrare il simbolo della Lega a sostegno della candidatura di Federico Sboarina, sindaco uscente della città scaligera ed esponente di Fratelli d’Italia. A stonare era però l’intestazione della lettera, con la scritta “Alla cortese attenzione del Capofamiglia”.

Il concetto di capofamiglia, una sorta di pater familias romano ormai anacronistico, era già obsoleto e discriminatorio negli anni Settanta, quando si posero le basi per la riforma del Diritto di Famiglia, arrivata nel 1975. Nel testo, infatti, veniva abolita giuridicamente la figura del capofamiglia, adeguandosi finalmente all’articolo 29 della Costituzione, secondo cui “il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”. Il precedente articolo 144 del codice civile recitava: “La moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno di fissare la sua residenza”. Con la nuova riforma moglie e marito acquisirono gli stessi diritti e doveri, la moglie poteva mantenere il suo cognome e non era più obbligata a cambiare residenza per seguire il marito. Veniva inoltre introdotta la comunione dei beni in seguito al matrimonio e abolita la dote, ovvero i beni che la donna portava al marito come oneri delle nozze. Oggi, nel 2022, sentire la parola capofamiglia associata a una scelta elettorale, come se la donna non avesse potere decisionale e dipendesse ancora dalle scelte del marito, è la rappresentazione lampante dell’arretratezza della destra.

Federico Sboarina

Quello della Lega di Salvini sembra un retaggio del “celodurismo” padano, quando il partito si basava sul vanto della virilità e del dominio muscolare e machista. Il nuovo segretario cercò di invertire la rotta candidando diverse donne in ruoli chiave, come per la presidenza delle regioni o nei ministeri. Eppure, questa decisione non è mai stata legata all’emancipazione femminile. È un fenomeno paragonabile alla candidatura di Toni Iwobi, il primo senatore di origine africana della storia della Repubblica italiana: dopo vent’anni di militanza nel partito, infatti, la Lega sembrò averlo candidato con l’intento strumentale di disperdere le accuse di xenofobia. Allo stesso modo è strumentale l’utilizzo della presenza femminile nella politica leghista, considerando che gli ideali del partito rimangono oscurantisti. Nella stessa Verona, ad esempio, solo nel 2018 la giunta leghista votò una mozione contro l’aborto. E il problema non è soltanto limitato a una faccenda tra uomini, visto che diverse esponenti leghiste si fanno portavoce di quel maschilismo che sabota i loro stessi diritti.

Toni Iwobi

In occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne del 2016, la leghista Susanna Ceccardi disse: “Penso che le manifestazioni contro la violenza sulle donne servono a poco. Di violenze ne subiamo tutti, ogni giorno. E magari le compiamo. La violenza è parte dell’uomo e della donna, è parte della natura”. Una frase che lascia senza parole e che probabilmente se fosse stata pronunciata da un uomo avrebbe giustamente creato una voragine di polemiche. Invece, Ceccardi fu candidata da Salvini alla presidenza della Regione Toscana. Un altra donna, invece, Donatella Tesei, presidente in quota Lega della Regione Umbria, eliminò la possibilità di sottoporsi all’aborto farmacologico in day hospital negli ospedali umbri e soltanto l’intervento del ministro Speranza sventò questo pericolo. Sembra che le donne che popolano la Lega siano così influenzate da certi pensieri (confusi per valori) da diventare addirittura nemiche di se stesse, ostacolando i propri diritti. Come quando Simona Baldassarre, eurodeputata leghista, criticò l’Europarlamento perché “promuove campagne abortiste e definisce l’aborto un diritto umano”.

Susanna Ceccardi
Donatella Tesei

D’altronde è lo stesso Salvini a voler incarnare la figura del pater familias degli italiani, al pari di Meloni e del suo essere una madre italiana. Sui vari palchi, la natura di Salvini è venuta fuori nel corso degli anni con più veemenza rispetto ai post sul web, filtrati dal suo staff. Ricordiamo tutti l’episodio della bambola gonfiabile, con il leghista che la paragonò a Laura Boldrini. Ma il problema è che la Lega nella sua considerazione delle donne non riguarda soltanto i vertici, ma tutte le realtà locali dove l’attenzione mediatica è meno prominente e certi episodi passano quasi sottotraccia. La scorsa estate, il consigliere leghista di Trento, Alessandro Savoi, commentò così il passaggio dalla Lega a Fratelli d’Italia delle sue colleghe Alessia Ambrosi e Katia Rossato: “Nella vita, come nella politica, i leoni restano leoni, i cani restano cani e le troie restano troie”. Sono parole che oggi fanno gelare, ma che sono parte integrante del movimento leghista, come quando il consigliere comunale di Scandicci, Christian Braccini, litigò con l’assessora all’ambiente Monia Monni scrivendole: “Ti vedo un po’ acida, in generale quando le donne sono così acide, significa che gli uomini scarseggiano. Forse sarebbero meglio se ti iscrivessi a Tinder”. Braccini ebbe anche la poco brillante idea di farsi un selfie nostalgico a Predappio, venendo poi sospeso dal partito.

Matteo Salvini

Il problema delle donne in politica può dividersi tra rappresentanza e cultura. Nel primo caso il PD rientra tra i colpevoli, perché da un lato si professa progressista e propone misure a sostegno delle donne; dall’altro c’è una carenza di candidature femminili a tutti i livelli, a partire dai ministeri del governo Draghi. È un fattore numerico che incide sulla credibilità del partito, con gli elettori che si aspettavano una donna alla segreteria prima che venisse scelto Enrico Letta, o una forte candidatura – Bindi o Finocchiaro – alla presidenza della Repubblica che poi ha portato al Mattarella-bis. A destra, invece, il problema è culturale e non è solo una questione d’immagine, considerando che Meloni è leader di partito e, vedendo i sondaggi, potrebbe diventare la prima donna premier del nostro Paese. Sarebbe però una vittoria di Pirro, perché anche Meloni si posiziona sul fronte del femonazionalismo, termine coniato dalla sociologa Sara R. Farris per indicare la strumentalizzazione del femminismo da parte di politici nazionalisti con lo scopo di alimentare la xenofobia e l’odio verso i migranti. Inoltre, Meloni porta avanti il concetto di “Dio, Patria, Famiglia” che richiama pensieri retrogradi anche sotto il versante dell’immagine delle donne, quasi esclusivamente legate al ruolo di fattrici. E, non a caso, la leader di FdI continua a rimarcare quel “sono una donna, sono una madre” e a portare avanti campagne antiabortiste, come vuole la tradizione di estrema destra.

Giorgia Meloni

Come per la Lega, anche per Fratelli d’Italia vale poi l’usanza di candidare maschilisti impresentabili in giro per il Paese. Il consigliere regionale della Basilicata, Rocco Leone, durante un Consiglio regionale, si è rivolto a una collega consigliandole “gargarismi di pisello”, come se non bastasse in diretta streaming. Luca Valentini, invece, candidato a Trento da FdI, ha scritto su Facebook: “Posso dire che due palle con ste propagande per la violenza verso la donna? Sembra sia tutto a senso unico. Se gli uomini sono così tremendi, scopatevi i cavalli. Facile”. Questi sono solo alcuni degli esempi di frasi sessiste che fanno parte del DNA della destra, e non solo di Lega e Fratelli d’Italia, perché uno dei promotori del maschilismo imperante degli ultimi decenni è stato senza dubbio Silvio Berlusconi.

Silvio Berlusconi

L’ex Cavaliere ha iniziato a svilire l’immagine della donna attraverso le sue televisioni, riducendole a oggetti, merce da sessualizzare. Arrivando in politica, si è distinto per atteggiamenti sfrontati in cui ha sempre considerato la donna in base all’aspetto fisico, sempre per lo stesso concetto della predominanza del corpo in quanto prodotto, unico biglietto da visita di un soggetto femminile. Tralasciando gli scandali sessuali che lo vedono ancora coinvolto in vari processi, Berlusconi ha scavalcato anche i limiti istituzionali denigrando verbalmente esponenti politici di sesso femminile. Ha definito Rosy Bindi “più bella che intelligente”, ponendole un marchio sulla sua carriera politica, in un’epoca in cui l’ironia sull’aspetto fisico di Bindi veniva sdoganata senza freni. Nel 2008 Daniela Santanchè dichiarò: “Silvio vede le donne solo orizzontali, il voto a Berlusconi è il più inutile che le donne possano dare”. Due anni dopo cambiò idea, entrando nel PdL diventando sottosegretaria sotto il governo di Berlusconi. 

Tra polemiche sul capofamiglia, diritti negati e sessismo dilagante, la destra italiana dimostra di avere più di un problema con le donne. Non basta infatti avere una femmina come leader per appropriarsi di un femminismo che chiaramente staziona su altre rive, se il ruolo delle donne per la destra è quello fabbricato dal Congresso delle famiglie, dal Family Day e da tutte quelle realtà anacronistiche che sviliscono ogni emancipazione e puntano a una regressione ideologica e morale. Parafrasando Santanchè, forse è vero che il voto alla destra è il più inutile che le donne possano dare.

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