Fra le numerose e affascinanti contraddizioni degli italiani, non passa inosservato il fatto che spesso siano realmente convinti di essere virtuosi, quando i loro effettivi comportamenti indicano l’esatto contrario.
I tre Italiani su quattro che, secondo un sondaggio di Swg, considerano gli evasori dei veri e propri parassiti della società, sono gli stessi che conquistano il primato assoluto di evasione fiscale in Europa, sia in termini pro-capite (3.156€) che in termini assoluti (190 miliardi di euro l’anno). Il Made in Italy, fiore all’occhiello di ogni dibattito nazionalista, cade nel dimenticatoio quando si tratta di passare dalle parole ai fatti: per abbigliamento, automobili ed elettronica, l’eccellenza italiana attira rispettivamente solo il 25%, il 16% e il 12% dei consumatori tricolori. Gli otto italiani su dieci, rigorosamente di fede cristiana, fedeli al principio di carità fino alla privazione personale, fanno clamorosamente retromarcia di fronte al rischio inesistente di penuria di beni di consumo durante il lockdown, al punto da accumulare smisuratamente scorte di prodotti, lasciando di fatto il prossimo davanti a scaffali vuoti e potenzialmente senza cibo.
Una nota ricerca di Ipsos, sintetizzata nel libro di Robert Duffy – professore di Politiche pubbliche presso il King’s College di Londra, The Perils of Perception, evidenzia come l’Italia sia il primo Paese al mondo ad avere la percezione più distorta della realtà. Nessuno fa peggio di noi quando si tratta di comprendere l’entità di fenomeni trasversali come economia, demografia, immigrazione, disoccupazione o sicurezza: ogni aspetto della dimensione quotidiana viene sistematicamente ingigantito, sottostimato o frainteso. Una tale distanza dalla comprensione dei fatti reali e dalla consapevolezza di se stessi ha radici profonde ed è il risultato di un complesso percorso storico, fatto di ripetute intromissioni e condizionamenti del pensiero autonomo e critico, subiti mediante l’utilizzo di diversi strumenti di controllo dell’opinione individuale e collettiva.
Fra il Cinquecento e il Seicento, i nostri predecessori hanno dovuto fare i conti con la vasta azione repressiva esercitata dalla Controriforma cattolica verso qualsiasi idea scientifica, filosofica o morale in contrasto con la dottrina della Chiesa. Il pensiero alternativo venne sistematicamente punito con la censura, i portatori di tali istanze furono condannati e torturati, dando vita a un clima di oppressione che influì in maniera determinante sulla capacità degli italiani di costruire liberamente un sentimento di autocoscienza e lasciando strascichi evidenti nel nostro attuale modo di pensare.
Interessante, da questo punto di vista, è la vasta letteratura di studi che tenta di misurare le ricadute di tali imposizioni cognitive sull’economia e sull’evoluzione di Paesi come il nostro, mettendo in relazione alcuni parametri come il tasso di alfabetismo e la produzione di PIL pro capite degli Stati europei con le rispettive origini culturali e religiose.
Le tesi weberiane trovano ampio riscontro nelle rilevazioni sull’analfabetismo italiano, in costante divaricazione rispetto ai Paesi protestanti del Nord Europa a partire dall’epoca della Controriforma cattolica, fino ad occupare nell’Ottocento l’ultimo posto nel continente con un tasso del 75-80% rispetto, ad esempio, al 20% della Prussia. Analoghe correlazioni si evidenziano sulla capacità di produzione del reddito: numerosi studi mostrano valori di PIL pro capite sistematicamente maggiori nei Paesi a matrice protestante, talvolta anche del triplo, sia nel Novecento che nella nostra epoca.
Indipendentemente da quanto altre dinamiche abbiano inciso sul ritardo dello sviluppo italiano, rimane centrale quanto l’impatto di un pensiero individuale “ostruito” possa influire sul progresso di una comunità. Condizioni analoghe si ripresentano nel nostro Paese in epoca mussoliniana, in cui la martellante propaganda accompagnata dall’uso indiscriminato della violenza e della censura sistematica contribuì a costruire un clima di silente obbedienza, compiacenza e servilismo rispetto al pensiero del padrone, dispensatore di forza e protezione, peraltro apparenti.
Al risveglio del senso critico degli anni Settanta, fa eco il regime mediatico dell’era berlusconiana, tentacolare e pervasivo al punto da imporre un modello di pensiero prefabbricato fatto di edonismo, individualismo e superficialità, a cui molti hanno preferito aderire in massa, rinunciando a una riflessione critica e storica molto più faticosa, che come al solito avrebbe richiesto tempo e impegno cognitivo. Oggi ne cogliamo ancora l’eredità nella sua forma lievemente mutata del sovranismo imperante.
Governi, dittature, religione, istituzioni: il potere è stato indubbiamente causa, concausa ed effetto del declino economico, sociale e culturale che ciclicamente si rinnova nella nostra penisola. Tuttavia, per quanto potere e istituzioni ci abbiano fatto del male nella storia, non siamo mai riusciti a reagire a questi condizionamenti in maniera incisiva, ricostruendo dalle fondamenta un nuovo sistema di valori etici e culturali più coerente con la nostra identità creativa, artistica e sociale e soprattutto in grado di resistere nel tempo. Ai preziosi spunti innovativi dei nostri padri dell’Umanesimo, alla capacità oppositiva della Resistenza, alle conquiste sociali di fine secolo, abbiamo ciclicamente alternato momenti di profonda involuzione intellettuale, tali da impoverire in modo inglorioso i grandi sforzi del passato.
Siamo corresponsabili di questa discesa e facciamo fatica ad ammetterlo. Negli ultimi decenni siamo scivolati nella tentazione dell’alibi dello Stato che non funziona, giustificando comportamenti elusivi e collusivi, alimentando la pigrizia del sussidio come rimborso dei danni subiti da qualsiasi entità: contesto sociale, Stato, istituzioni. Scientifici nell’individuare colpe altrui, professionisti nel non risultare mai responsabili, sempre vittime delle circostanze e per questo, meritevoli di assoluzioni continue e indiscriminate.
Peccato che la questione non sia solamente circoscritta agli atteggiamenti. La deriva antropologica ci ha trascinato nel declino dei numeri: bassa produttività, difficoltà a competere, oneri sul debito pubblico, lavoro, disuguaglianze territoriali, scarsa attenzione verso innovazione, assenza di visione a lungo termine. Nell’attuale situazione di crisi, ci presentiamo con questo curriculum all’appuntamento con le altre economie europee, in particolare quelle del Nord, caratterizzate da un passato completamente diverso, con profili strutturali delle rispettive economie molto più solidi, con tessuti sociali più reattivi e competitivi. In assenza di una vera rottura che ci discosti dai trend degli ultimi decenni, è molto elevato il rischio che si possa accentuare ancora di più il divario con gli altri Paesi, al punto da renderlo colossale.
Il Recovery Fund, se il negoziato sarà confermato, appare come una benedizione: poter finanziare la spesa in investimenti con prestiti a tassi decisamente minori rispetto alle fonti domestiche o con trasferimenti a fondo perduto, è certamente un’ottima notizia, ma occorre tener presente che politiche monetarie e industriali non saranno mai sufficienti a conseguire uno sviluppo stabile e duraturo se non saranno accompagnate da una trasformazione sociale urgente e invocata da mezzo secolo.
Sarebbe insopportabile uno scenario di continuità con il passato in cui politica, istituzioni, imprese, parti sociali e società civile siano impegnate passivamente a condannarsi l’un l’altra, mentre scorrono sui giornali titoli che non vorremmo mai leggere su nuovi sprechi, conflitti sociali e ritardi implementativi.
Sarebbe ora di dismettere certi comportamenti dannosi per la nostra società, economia e reputazione, denunciandoli ed emarginandoli con forza. Sono presenti tutte le condizioni affinché avvenga un vero e proprio strappo sociale, un recupero di coscienza del ruolo centrale che l’ordine sociale assume in queste fasi storiche: è sempre stata la comunità a guidare le rivoluzioni, a lottare per le conquiste sociali, a compiere le grandi discontinuità evolutive, quelle vere. Quanto mai attuale è la nazione “incosciente” invocata da Pasolini: così come allora, un Paese che decide di non recuperare un senso di coscienza collettivo, rischia seriamente di fraintendere il presente e di confondersi sulla strada per costruire un nuovo futuro.