“Obbligheremo le donne a partorire.” Questa frase non è scritta nelle memorie di un folle sovrano medievale, ma è una dichiarazione dell’avvocato e senatore leghista Simone Pillon, paladino del Family Day, della lotta alla stregoneria nelle scuole bresciane e del papillon. Questo pensiero, che dovrebbe far rabbrividire l’intero Paese con la promessa di spazzare via qualsiasi forma di diritto acquisito dalle donne e schiacciando decenni di lotte femministe, nasce dall’arrivo alla commissione Giustizia del Senato del cosiddetto Ddl Pillon.
Il disegno di legge dell’omonimo senatore ha l’obiettivo di creare la bigenitorialità perfetta, un’aurea ed esemplare relazione parentale. Formalmente sembra un tentativo di difendere il nucleo famigliare, mentre in pratica vuole minare, punto per punto, l’intero mondo che sta al di fuori della sua idea preistorica di famiglia tradizionale. Rivoluziona infatti ogni aspetto dell’attuale politica familiare: dalle modifiche alle norme in materia di affido condiviso, in virtù delle quali il figlio viene strapazzato tra due case in modo sì più equo per i genitori ma probabilmente più destabilizzante per il bambino stesso, alla revoca dell’assegno di mantenimento, che vuole “colpire” le mogli ma invece rischia di rivelarsi un boomerang verso i figli. Tutto in virtù del suo grande sogno: quello del matrimonio indissolubile, legislativamente parlando. Proprio per questo introdurrebbe la figura obbligatoria del mediatore familiare, incaricato di tentare il salvataggio del legame divino. Guarda caso il mediatore è proprio la professione in cui Pillon è specializzato. Proposte del genere sono così evidentemente reazionarie e fuori da ogni logica attuale da risvegliare anche il Segreterio del Pd Martina, e attirare ovviamente l’attenzione dei media.
Pillon, sentendosi ingiustamente attaccato e profondamente frainteso, ha rilasciato un’intervista a La Stampa, dove finisce per dimostrare che il Ddl è una versione addolcita del suo reale pensiero. Parla dell’utero in affitto come di un abominio, dichiara che abolirebbe volentieri le unioni civili e pagherebbe le donne per farle partorire, aggiungendo anche che poi, nel caso quelle ostinate sprovvedute non accettassero le sue mazzette, le costringerebbe ugualmente a farlo. Proprio come nelle migliori distopie. Pillon non è certamente nuovo a questo tipo di dichiarazioni: già in agosto, ad esempio, esprimeva opposizione alla legge 194, aspirando ai traguardi anti-abortisti raggiunti in Argentina, dove la legge per la legalizzazione dell’interruzione di gravidanza è stata respinta.
Quelle di Pillon sono parole umilianti, ma le reazioni disgustate che ne sono seguite non sono state abbastanza potenti per fermarlo. Anzi, l’autodefinitosi “papista” ha riscontrato un certo supporto tra i nostri governanti (o quantomeno, un silenzio vergognoso), tanto da portare alla nascita di un intergruppo parlamentare composto, oltre che da lui stesso, dai luminari Maurizio Gasparri, Alessandro Pagano e il leader del Family Day Massimo Gandolfini. “Vita, famiglia e libertà”, questo il nome scelto, che rispecchia le priorità dell’alleanza: stimolare la natalità, la genitorialità, sostenere l’obiezione di coscienza sul testamento biologico, e scoraggiare – se non proprio ostacolare – l’interruzione di gravidanza.
Con queste dichiarazioni, Pillon ha definitivamente chiarito le sue posizioni maschiliste, retrograde e liberticide, dimostrandosi profondamente irrispettoso nei confronti delle donne. La legalizzazione dell’interruzione di gravidanza è stata una delle battaglie sociali più dure del nostro Paese, a causa soprattutto delle influenze della Chiesa. In Italia è avvenuta esattamente quarant’anni fa grazie alla legge 194, dopo un lungo e travagliato percorso. Un diritto ottenuto superando mille ostacoli (uno su tutti il referendum abrogativo del 1981), portando avanti con costanza e convinzione una lenta e faticosa rivoluzione degli status quo socio-culturali e un superamento di numerosi preconcetti. Ma si tratta di un diritto fondamentale: proprio per questo oggi è una pratica possibile nella maggior parte dei Paesi del mondo“progredito” e anche l’Europa aveva detto no a una petizione Made in Italy per la sua abolizione, per giunta rimproverando il nostro Paese, attraverso una sentenza del Comitato Europeo dei Diritti Sociali del Consiglio d’Europa, di violare i diritti acquisiti delle donne italiane per il numero troppo elevato di medici obiettori di coscienza.
Abolire l’interruzione di gravidanza, poi, non porterebbe neanche a un aumento della natalità, anzi: ad aumentare saranno solo le morti per aborti clandestini, in luoghi e con strumentazioni insalubri, con metodi e medici improvvisati, come succedeva una volta e succede ancora oggi dove è vietato. Nei Paesi dove è consentito e legiferato, al contrario, le interruzioni volontarie di gravidanza tendono paradossalmente a diminuire, forse perché un approccio più liberale e meno retrogrado porta con sé anche più prevenzione e consapevolezza.
Interrompere una gravidanza non è un omicidio, questione alla quale si attaccano disperatamente la Chiesa e gli affiliati e variegati gruppi pro-vita e pro-famiglia, arrivando a definire l’interruzione in caso di malattia un “Nazismo coi guanti bianchi.” Un embrione non è un feto, e un feto non è un bambino, e non è scientificamente ed eticamente giusto equipararli. Piuttosto, è più sensato auspicare in una migliore educazione sessuale che includa tematiche come la contraccezione e la cosiddetta “pillola del giorno dopo” per diminuire le possibilità di trovarsi di fronte a questo dilemma esistenziale. L’interruzione di gravidanza è un rischio, così come lo può essere una gravidanza e la sua conclusione: le morti per parto non sono tantissime ma esistono, così come le complicazioni, le sofferenze durante la gestazione e la depressione post parto. Le donne che scelgono di interrompere la gravidanza non possono e non devono essere accusate di nulla, in quanto è un loro diritto riconosciuto.
Abolire l’interruzione di gravidanza significa impedire a una donna (o a una coppia) di decidere cosa fare della propria vita, magari distruggendola e portando infelicità e sofferenza sia a loro che alla vita futura. La legge 194 sancisce come punto fondamentale proprio questo: il diritto a una procreazione cosciente e responsabile, il diritto a poter fare scelte sulla propria esistenza e il proprio possibile domani. Nessuno può obbligare una donna a portare avanti una gravidanza, lei è l’unica che può sceglierlo e desiderarlo. Nascere femmina comporta notevoli complicazioni nella vita di ogni giorno e sotto quasi tutti i punti di vista, ma scippare l’esclusività di una decisione che si fonda proprio sulla sua femminilità e posarla con nonchalance nelle mani del primo parlamentare che passa non è solo sbagliato, è vile, umiliante e vergognoso. Ogni donna lo percepisce, ogni uomo dovrebbe comprenderlo.
La questione centrale non deve essere la giustezza o meno della legittimità dell’Ivg, ma il dovere di uno Stato laico – come dovrebbe essere il nostro – di garantire alle donne la libertà, quella tanto propagandata dalla fantomatica coalizione interparlamentare, di decidere del proprio corpo e dei propri sentimenti. Avere un bambino comporta certamente grandi gioie, questo nessuno vuole negarlo, ma non si può neanche vivere in un utopico mondo dove tutto è rose e fiori, dove un fiocco attaccato alla porta è capace di aprire la strada alla felicità imperitura. Essere genitori comporta anche grandi impegni, grandi sacrifici, pianti e discussioni, fatiche economiche e psicologiche, crisi di coppie ed esistenziali. Avere un bambino mette in gioco una donna nella sua interezza, fisica e psicologica, e proprio per questo, deve essere lei e non il primo Pillon di turno, a decidere se si sente pronta a farlo.