
Martedì, alla Camera, si è tenuto un voto sulla mozione di sfiducia presentato dalle opposizioni contro la ministra del Turismo Daniela Santanchè, a processo per falso in bilancio e indagata per truffa aggravata ai danni dell’Inps e per bancarotta fraudolenta. La mozione è stata respinta grazie ai numeri della maggioranza, ma non è questo il punto. Il discorso di Santanchè prima del voto è stato, a mio avviso, uno dei più grandi esempi di decadimento politico e culturale del nostro Paese. All’interno c’è tutto: la farsa, la tragedia, il grottesco, il berlusconismo inobliabile, il cafonal-speech tirato fuori da un privé del Billionaire e addirittura la verità nuda e cruda. Quest’ultima si può riscontrare nella sua frase “Io sono l’emblema di tutto ciò che detestate”. Sono le parole più incisive della sua carriera, perché Daniela Santanchè è realmente la figura ideologicamente più lontana – e dunque più detestabile, per usare le sue parole – da ciò che dovrebbe essere una ministra, una politica, una cittadina. Lei ha enunciato la verità senza però capire le motivazioni, visto che poi è partito uno sproloquio sui tacchi da 12 centimetri, sul vestirsi bene e sulla cura dell’aspetto fisico, e che sembrava dovesse chiudersi sulle note di “Essere una donna” di Anna Tatangelo. Non avendo lei centrato il punto, se vuole possiamo essere noi a spiegarle perché è “l’emblema di tutto ciò che detestiamo”.

In primis perché è una fascista. Non è un’illazione, è stata lei a dichiararlo più volte, definendosi anche orgogliosa di esserlo. Nel 2007 ruppe con Berlusconi e con Fini e creò il partito La Destra. Durante l’assemblea costituente del partito, criticò aspramente Fini per aver definitivo il fascismo “il male assoluto”, spiegando di aver voluto abbandonare AN per “non subire più le posizioni di chi, per legittimarsi agli occhi della comunità finanziaria e mediatica, arriva a giudicare il ventennio fascista addirittura come il male assoluto”. Lo spiegò ulteriormente in un’intervista con Lucia Annunziata: “Io non direi mai che il fascismo è il male assoluto perché per me non lo è. Io sono orgogliosa se sono fascista perché sono in buona compagnia”. Da un lato potremmo dire che è stata l’unica fascista adesso al governo ad aver ammesso pubblicamente di esserlo, mentre altri – tra premier, ministri, deputati e senatori – hanno preferito il mascheramento tanto caro ad Almirante. Dall’altro c’è da dire che una fascista non può sedere al Parlamento e che dovrebbe essere estromessa in quanto tale, a prescindere dall’esito dei suoi processi.

C’è poi un altro aspetto di Santanchè che mi ha sempre inquietato: il suo concetto di donna. Trovo deprecabili le situazioni in cui un uomo spiega come “essere una donna” a una donna, quindi più che il mio giudizio credo sia più costruttivo mettere in luce il pensiero diretto di Santanchè. Quello che si nota in parecchie sue interviste è l’uso dell’espressione “donna con le palle” per indicare delle figure femminili forti. È un retaggio del patriarcato, un meccanismo che dovrebbe innalzare il ruolo della donna attribuendole caratteristiche e sembianze maschili – come per esempio le palle. Nell’ambiente di estrema destra è una pratica comune: la stessa Giorgia Meloni declina il suo ruolo al maschile, facendosi chiamare “il presidente”, perché convinta di avere in tal modo un’autorevolezza maggiore. È il rimando all’immagine della donna mussoliniana, poi missina, infine neofascista, che per emanciparsi ha bisogno di rappresentare i tratti dell’uomo. A tal proposito, c’è un’intervista di Santanchè con Klaus Davi che mi ha sempre impressionato per una risposta: “Nella mia carriera sono stata corteggiata da più donne e ne sono lusingata. Il motivo? La verità è che piaccio alle donne perché sono un uomo”.
Anche qui Santanchè mostra ciò che la differenzia da altre figure di spicco di estrema destra: come non ha paura di definirsi fascista, allo stesso tempo non nasconde la sua necessità di avvicinarsi all’uomo – fino addirittura alla trasfigurazione e a diventarlo – per sentirsi più potente e prestigiosa. Altrimenti, restando donna, ha dichiarato che “la cosa più bella che possa capitare a una donna innamorata è servire il proprio uomo”. La parola servire non l’ho aggiunta io per ingigantire il concetto, l’ha proprio pronunciata impudentemente lei. Soltanto in un’occasione è andata contro il suo stesso mantra, ovvero quando ruppe con Berlusconi e gli si scagliò contro, dichiarando: “Voglio fare un appello a tutte le donne italiane. Non date il voto a Silvio Berlusconi, perché ci vede solo orizzontali, non ci vede mai verticali”. Sembrava la sua epifania, la svolta in direzione dell’emancipazione. Tre anni dopo tornerà all’ovile in seguito agli scarsi risultati de La Destra e la promessa di Berlusconi di un posto da sottosegretaria nel governo Berlusconi IV. Alle successive elezioni viene candidata come capolista in Lombardia da Forza Italia, superato, evidentemente, il contrasto sullo sviluppo orizzontale o verticale delle visioni. Sappiamo però che la sua prima dichiarazione dopo la candidatura fu: “Berlusconi crede fermamente nelle donne”.

Un altro motivo che la rende “detestabile” è quel misto tra ostentazione della ricchezza e fastidio per i poveri che tanto la accomuna al suo amico e socio in affari Flavio Briatore. Ricordo un programma della RAI di qualche anno fa in cui politici e personaggi famosi si presentavano davanti a una classe di bambini per tenere la propria lezione. Santanchè li guardò e pronunciò queste frasi: “Il denaro è l’unico vero strumento di libertà. I soldi servono a essere liberi. Il mio papà ha insegnato a me e ai miei fratelli che chi paga comanda”. Qui c’è tutta l’ipocrisia di Fratelli d’Italia e di Giorgia Meloni. La premier è arrivata al potere proprio creandosi l’immagine di “quella del popolo”, rivendicando la sua vicinanza ai ceti più bassi facendo parte dell’Aspen Institute finanziato dai Rockefeller e stringendo legami con quelli che i populisti per anni hanno definito “poteri forti”. E, una volta al governo, non ha fatto nulla per aumentare gli stipendi o abbassare le bollette, preferendo strizzare l’occhio ai ricchi imprenditori con qualche conto in sospeso con il Fisco. La destra è questo: il denaro come mezzo di controllo delle masse, la ricchezza come scettro del potere a scapito dei più poveri. Santanchè, in quanto fascio-cafonal lo dice apertamente; Meloni, rappresentante del fascio-pop, no. Eppure, fuori dalle dichiarazioni, gli ideali sono gli stessi e uniscono la retorica neofascista al berlusconismo ancora imperante nel nostro Paese. Meloni ne è la coda, non si è mai distaccata da quel concetto di potere – e di abuso di esso – nonostante finga un’appartenenza al popolo che non le spetta.

Trovo dunque vergognoso che la nostra presidente del Consiglio non abbia allontanato Santanchè, con il governo a votare contro la mozione di sfiducia a suo carico. Sì, la questione focale è il processo che dovrà affrontare e le altre inchieste pendenti, con accuse pesantissime. Il punto è che Santanchè, per il suo trascorso politico, non avrebbe nemmeno dovuto mettere piede di nuovo in Parlamento, figuriamoci come ministra. Meloni nemmeno si è presentata in aula durante la votazione, e non è la prima volta che avviene. Di fronte alle situazioni spinose tende alla fuga, non sa assumersi le sue responsabilità e preferisce nel mentre lodare traguardi mai raggiunti dal governo tramite post farneticanti sui social. La realtà è che Santanchè e Meloni provengono dallo stesso humus, da un ambiente antidemocratico che non ha mai abbandonato le sue radici. Solo che Meloni è stata più furba nel nascondere quei tratti identitari che invece Santanchè ha sempre mostrato spudoratamente, senza vergogna alcuna. Non so cosa sia peggio tra le due situazioni, se una neofascista alla luce del sole o una che indossa una maschera. Sta di fatto che attualmente sono entrambe al governo, una come premier e l’altra come ministra, e l’Italia è sempre di più barzelletta dell’Europa. Come durante il berlusconismo. Anche perché non è mai finito.
