La legislatura del M5S sarà ricordata per lo sfascismo, politica basata sulla distruzione. Del Paese. - THE VISION

Quando Mario Draghi è salito al Colle per rassegnare le dimissioni al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, tra i due è probabile che sia scattato uno sguardo, un pensiero comune basato sulla consapevolezza di essersi trovati nei rispettivi ruoli durante il periodo con la peggior classe politica della storia della Repubblica. Per decoro istituzionale forse non l’hanno detto ad alta voce, ma l’impressione è quella di due presidi in balia di una scolaresca irresponsabile, inadeguata e senza alcuna speranza di ottenere buoni risultati. Entrambi volevano essere altrove. A fine gennaio, Mattarella era già pronto a godersi i nipoti, ma il Parlamento non è stato in grado di mettersi d’accordo sul nome del successore e l’ha costretto al bis. Circa un anno prima, Draghi era stato chiamato come volto di prestigio per tentare di recuperare una reputazione internazionale ormai ai minimi storici, dopo il fallimento di due governi politici. Adesso ci sono due opzioni: andare al voto o creare un governo raffazzonato senza grillini, tentando di convincere Draghi a restare al timone. Ci sarebbe anche una terza via – l’eterno ritorno – in quanto l’Italia è una Repubblica fondata sull’ipotesi Amato.

Sergio Mattarella

Il Paese ristagna da anni in un loop che segue fedelmente lo stesso percorso, ma a quanto pare i cittadini non se ne sono accorti. Durante le campagne elettorali si gioca ad alzare sempre di più l’asticella del populismo, incolpando il precedente governo, creando nemici e facendo promesse irrealizzabili. Arrivati al potere, la bolla dell’antipolitica scoppia, insorgono le incompetenze e l’attaccamento alla poltrona. In un impeto gattopardiano, il nuovo assume le sembianze del vecchio e tutto cambia affinché nulla possa cambiare. Gli eroi da opposizione diventano cerretani da governo, arrivando al fallimento. D’altronde 67 esecutivi in 76 anni di Repubblica lo dimostrano. La classe politica così delega ai tecnici le mansioni più ostiche, le scelte impopolari. Arrivano i burocrati e le inevitabili misure da lacrime e sangue. I cittadini dimenticano gli artefici dei disastri, insorgono e si riaffidano agli stessi politici che hanno devastato l’economia e impoverito culturalmente il Paese. Così, nel 2022 siamo a un passo dall’avere di nuovo lo stesso governo eletto nel 2008, quello composto da Berlusconi, Lega e Meloni e che ha portato la nazione a un passo dal default in stile Grecia. Fu evitato anche grazie a un presidente della Banca Centrale Europea che decise di superare alcuni paletti, per esempio con l’acquisizione della BCE di titoli di Stato dai Paesi membri, ad ogni costo. Whatever it takes. L’Euro e soprattutto l’Italia respirarono. Quel presidente era Mario Draghi.

Giorgia Meloni, Silvio Berlusconi e Matteo Salvini

Con una classe politica quantomeno decente, Draghi non sarebbe mai diventato Presidente del Consiglio. La formazione del suo governo decretò la sconfitta dei partiti, un’implicita ammissione di colpa di fronte all’incapacità di assumersi le proprie responsabilità. Venne chiamato al vertice l’italiano più influente e rispettato all’estero, ma lui stesso non fece i conti con una realtà: attorno a lui avrebbero comunque orbitato le stesse facce che hanno fatto della malapolitica il tratto distintivo di più decenni. Così “il governo dei migliori” è stato in realtà un pantano composto da quei personaggi che hanno contribuito allo sfascio del Paese. Berlusconiani, leghisti, grillini riluttanti e grillini trasformisti, piddini che intanto per rinnovarsi avevano chiamato lo stesso segretario allontanato un decennio prima, ex democristiani e ciellini di ferro. Un calderone che già lasciava presagire la catastrofe che prontamente è arrivata.

Mario Draghi

Il regicidio è avvenuto per mano di chi ne aveva già subiti due, ovvero Giuseppe Conte. Se la prossima legislatura vedrà un’ondata di neofascisti al governo, questa sarà ricordata come quella degli sfascisti. Noncurante dei danni inflitti in questi quattro anni e mezzo al governo, il M5S ha infatti deciso di mettere in scena l’ultimo coup de théâtre causando una crisi di governo in piena estate, con l’economia a pezzi tra inflazione e rincari, con i fondi del PNRR da gestire e una situazione geopolitica più che delicata. Non a caso, il primo a gongolare per le dimissioni di Draghi è stato Dmitri Medvedev, ex presidente russo e vicepresidente del Consiglio di Sicurezza di Mosca, che sui social si è burlato dell’uscita di scena di Johnson e Draghi, chiedendosi provocatoriamente chi sarà il prossimo a saltare. Il piano degli sfascisti nostrani è perfettamente riuscito: nel 2017 venne fuori un documento ufficiale in cui venivano spiegati i dettagli di una “rete informale” tra Russia Unita di Putin e diversi partiti europei, tra cui M5S e Lega, per destabilizzare dall’interno l’Unione Europea e il cosiddetto Occidente. Sarà un caso, ma le prime spaccature tra il M5S e il governo Draghi sono nate in seguito alle sanzioni alla Russia e all’invio di armi in Ucraina. Qualcuno dal Cremlino oggi deve aver spedito una bottiglia di spumante nella sede del M5S.

Giuseppe Conte

Se il fascismo è un pericolo storico e sociale che non è mai stato estirpato, in quanto ha cambiato forma ma non sostanza, lo sfascismo ha connotazioni più subdole, perché è meno semplice da riconoscere. È l’evoluzione finale delle picconate di Cossiga e della rottamazione di Renzi ed è la politica basata sulla distruzione e non sulla costruzione. Questo implica un’alta probabilità di successo quando si è all’opposizione, come capitato ai grillini, per poi mostrare tutti i suoi limiti durante la fase di governo. È la destituzione della politica stessa, un rappresentante del popolo che abdica in quanto incapace di sostenere il peso delle promesse, poiché irrealizzabili o gravose per le casse dello Stato. Qui entra in gioco una responsabilità secondaria: quella dei cittadini. 

“Piove governo ladro” può andar bene come lamento fine a se stesso, ma siamo noi a seguire i pifferai magici di turno. Abbiamo portato al potere grillini e leghisti, abbiamo fatto raggiungere il 40% a Renzi e fatto vincere tre elezioni a Berlusconi. Siamo noi a cadere nell’inganno del populismo e a cercare una figura messianica che possa magicamente risolvere tutti i problemi del nostro Paese. Viviamo nella perpetua logica della deresponsabilizzazione, la stasi perfetta che ci pone in una posizione di comodità, pronti a sbraitare puntando il dito contro lo “Stato canaglia” quando siamo i primi ad avvelenarlo. Se la classe politica è lo specchio del Paese, non possiamo stupirci di fronte a governi scadenti quando noi contribuiamo evadendo 100 miliardi di euro di tasse l’anno, eleggendo certi elementi, smarrendo ogni forma di senso civico, imbarbarendoci e conformandoci senza fare niente per migliorare la situazione. Cediamo alle sirene degli sfascisti perché pensiamo che la next big thing sia sempre la soluzione migliore, anche se si tratta di chi, come Giorgia Meloni, fa politica dai tempi del MSI. La distruzione ci affascina perché vogliamo tutto e subito e non siamo capaci di comprendere i processi di costruzione e la loro inevitabile progressione, ovvero quella visione a lungo termine che tutti i partiti hanno perduto, in quanto poco conveniente a livello elettorale.

Matteo Renzi
Giorgia Meloni

Per questi motivi, c’è chi oggi sta festeggiando l’addio di Draghi come se fosse il responsabile delle nostre difficoltà esistenziali. Notiamo solo l’aumento delle bollette e non ne individuiamo la causa, non pensiamo alla crisi del gas, alle conseguenze dell’invasione russa in Ucraina con gli strascichi che si porterà dietro. Sì, se associamo il governo Draghi a Brunetta, Gelmini e altri ministri ripescati dal triste passato non possiamo che rallegrarci della sua disgregazione. Ma stiamo parlando di partiti politici e non di una figura esterna che è diventata una vittima dei loro giochi di potere. Ci lasciamo dunque intortare dalle narrazioni frivole, così Draghi diventa un guerrafondaio perché ha sostenuto il popolo ucraino e perché qualcuno si è accorto, nel 2022, che l’Italia fa parte della NATO. Gli sfascisti avrebbero preferito togliere le sanzioni alla Russia, non aiutare gli ucraini e stendere un tappeto rosso a Putin. Senza arrivare al culto della personalità, dobbiamo considerarci fortunati che a Kiev sia andato Draghi e non il Di Battista di turno.

I Monti e i Draghi arrivano quando la politica fallisce, non il contrario. Questa ennesima crisi di governo è la conferma che gli interessi personali prevalgono su quelli della comunità. Ora subiremo le ripercussioni dei mercati e la preoccupazione degli investitori stranieri che non possono non notare la nostra instabilità politica. Draghi era stato messo in quel ruolo come sigillo di garanzia, l’affidabilità di chi sa come muoversi fuori dai nostri confini. Eppure, per molti ci siamo sbarazzati di un “burocrate di Bruxelles” e dunque un nemico del popolo. Siamo i primi ad auspicare un governo politico che sia solido e competente, ma non si vede questa opportunità all’orizzonte. Gli sfascisti hanno rimosso una figura che loro stessi avevano evocato per compensare le loro lacune e adesso ne subiremo le conseguenze. Abbiamo fatto cadere un governo mediocre presieduto da un personaggio di spessore e ora rischiamo di ritrovarci, dopo mesi di tribolazioni e dissesti economici, con un governo ancor più sciagurato presieduto da chi ha lo spessore di un post su Facebook, ovvero nessuno.

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