Qualche giorno fa, il Consiglio regionale veneto è andato al voto su una norma di iniziativa popolare, sostenuta dall’associazione Luca Coscioni, sul suicidio assistito. Nonostante il partito di appartenenza, la Lega, il presidente del Veneto Luca Zaia, pur tenendo particolarmente alla norma, ha lasciato libertà di voto alla sua compagine politica, notoriamente conservatrice. Nulla da fare però per quelli di Forza Italia e Fratelli d’Italia, che hanno confermato la loro contrarietà. Si sono astenuti – ma restando in aula, quindi voto contrario – anche due leghisti, “tradendo” il loro presidente di Regione. Per far passare la legge, al centrosinistra sarebbero bastati i voti favorevoli di tutti e dieci i consiglieri. Nove sono arrivati. L’ultimo, quello di Anna Maria Bigon, consigliera dem di area cattolica, no, facendo saltare la legge.
In un’epoca in cui la gogna mediatica si sta inasprendo fino al rischio di contribuire al mietere vittime, sarebbe certamente sbagliato crearne un’altra contro Bigon. In politica ogni voto è lecito, anche andando contro il pensiero del proprio partito. Viene da chiedersi quale sia, però, quello del PD. Anche dalle reazioni, si percepisce una disomogeneità che ha sempre caratterizzato una creatura politica senza una vera identità. Se Schlein ha parlato di “una ferita” riferendosi alla scelta di Bigon, diversi membri del partito hanno fatto testuggine attorno alla consigliera veneta difendendo la sua decisione. Graziano Delrio ha minacciato di autosospendersi dal PD in caso di provvedimenti disciplinari contro Bigon, spiegando che “su questi temi la disciplina di partito non può sovrastare la libertà di coscienza”. Bigon è poi stata effettivamente rimossa dall’incarico, ma non dalla segreteria nazionale né da quella regionale, bensì per mano del segretario provinciale Franco Bonfante, con i vertici del partito che hanno confermato di non essere intervenuti nella decisione. Anche perché molti dem condividono il pensiero di Bigon. Ad esempio, la senatrice Beatrice Lorenzin, tra l’altro ex ministra della Sanità, ha aggiunto che “non si può prescindere dall’obiezione di coscienza, un diritto del personale sanitario”. Libertà di scelta individuale, va bene, ma un elettore ha il diritto di sapere se sta votando per un partito progressista o per l’associazione nazionale degli obiettori di coscienza.
Quando viene criticato l’operato di Elly Schlein, bisogna tener conto delle numerose correnti che compongono il PD e ne influenzano la linea politica. L’utopia di mettere al vertice un nome nuovo e rivoluzionare tutto va a sbattere contro la realtà di un Ancien Régime che non è mai stato esautorato. Dietro il volto nuovo di Schlein ci sono sempre gli stessi che da decenni occupano le stanze del potere del centrosinistra. L’idea di creare un partito-contenitore – un’accozzaglia di anime – ha disorientato gli elettori più che unirli. Se nel 2007 la fondazione del PD era il sogno veltroniano di un’appendice del Yes we can di Obama e tentava di replicare i meccanismi dei democratici USA, già con il progetto dell’Ulivo si era intuita l’impossibilità di tenere insieme realtà così distanti tra loro. Si è sempre pensato di aumentare il bacino di voti riducendo le ideologie a una somma: quindi dentro comunisti e democristiani, progressisti e conservatori, guelfi e ghibellini. Il tutti insieme appassionatamente ha prodotto una ricetta con i dosaggi sballati, un’entità spuria che non ha mai intercettato gli umori dei cittadini.
È come quando, da bambini, accecati dalla fame si tentava di mettere più ingredienti possibili nello stesso piatto con la speranza di saziarsi. Avevamo voglia di dolce ma anche di salato – quel “ma anche” che è stato il tratto distintivo dello stesso Veltroni – e come risultato ci accorgevamo che no, il cioccolato e il tonno forse non andavano bene insieme come abbinamento. La bulimia politica del centrosinistra è poi stata la sua stessa condanna, perché incamerare realtà opposte tra loro ha sempre fatto saltare il banco. I due governi Prodi sono entrambi caduti per dei tradimenti di membri della stessa, raffazzonata coalizione – Bertinotti prima e Mastella poi. La lezione non è mai servita, e dal 2007 molti membri di quei partiti esterni che sostenevano l’Ulivo sono entrati direttamente nel PD. Alcuni provenivano addirittura dalla coalizione di centrodestra. L’immagine che rappresenta in pieno il declino ideologico del PD è la foto di Pier Ferdinando Casini nella sede di partito bolognese sotto il ritratto di Enrico Berlinguer. Quando si fanno le analisi della sconfitta e ci si interroga sull’astensionismo in crescita, basta quell’immagine per spiegare perché molti elettori di centrosinistra abbiano preferito il mare alle urne.
Se proprio dobbiamo dare un nome a questo pastrocchio, il primo a venirmi in mente è sindrome di Paola Binetti. Per diversi anni, il PD ha avuto al suo interno Binetti, appartenente alla corrente teodem. Vicina ad ambienti come Opus Dei e CEI, per molti ha agito come longa manus del Vaticano, rilasciando negli anni dichiarazioni più che controverse, come quando definì l’omosessualità una “devianza della personalità”. Per rincarare la dose, disse che “tendenze gay fortemente radicate possono portare alla pedofilia” e, messa alle strette sul tema, affermò: “Non voterò nessuna normativa giuridica a tutela delle coppie gay”. Ci si è chiesto a lungo il motivo per cui il PD ospitasse un’ala del genere al suo interno, fino a quando la stessa Binetti non ha abbandonato il partito per approdare nella sua casa naturale: UDC, nel gruppo parlamentare con Forza Italia.
È ironico pensare che Binetti abbia condiviso lo stesso partito con Anna Paola Concia, che adesso ha invertito la rotta e va ad Atreju a parlare in modo ambiguo di teorie gender, ma all’epoca è stata la prima parlamentare dichiaratamente omosessuale, pioniera dei diritti della comunità LGBTQ+, prima firmataria già nel 2011 di una proposta di legge – bocciata – che prevedeva l’aggravante per i reati con moventi omofobi. Nell’idea iniziale dei vertici del partito, l’intento era quello di portare i voti dell’ipotetico elettorato di Binetti e di quello di Concia. Non si sono però resi conto del rinculo ideologico: un fondamentalista cattolico non avrebbe mai votato “il partito delle lesbiche” e un progressista non avrebbe mai sostenuto “il partito delle suore”. Di conseguenza, il PD a ogni tornata elettorale ha retto solo con i voti di chi non voleva far vincere gli altri, non potendo contare su una progettualità o una visione comune. Passando gli anni, e perdendo lo zoccolo duro degli anziani che andavano alle Feste dell’Unità e che ora sono sotto un cipresso, il partito non ha saputo rinnovarsi per poter dare al diciottenne di turno una risposta alla domanda: “Perché dovrei votarvi?”.
Si pensava che l’arrivo di Schlein avrebbe dato nuova linfa al PD, avvicinandosi alle battaglie dei più giovani, ovvero quelle per l’ambiente, per i diritti civili e contro la precarietà della loro generazione. I buoni propositi della segretaria erano quelli, e durante la campagna elettorale per le primarie premeva proprio sui tasti giusti per riavvicinare i giovani al partito e, in generale, alla politica. Una volta eletta, si è però ritrovata arenata nella rete delle correnti di partito, impotente di fronte alla guerra fratricida tra chi è ancorato al passato e chi ha la mente rivolta al futuro. È l’eredità della formazione stessa del partito, dell’idea di mettere insieme Peppone e Don Camillo in un’unica stanza sperando che non si menassero. E invece l’hanno fatto, consegnando il Paese alla destra.
Per quanto potessimo aspettarci da Schlein più coraggio, se non addirittura un tentativo di fare tabula rasa e rifondare il partito da zero, non possiamo attribuirle tutte le responsabilità di questo immobilismo. La verità è che il PD è un partito ingovernabile. Disorganico per natura, che impedisce a qualunque segretario di apportare novità o di orchestrare un allineamento di pensiero. Non si capisce, a distanza di diciassette anni dalla sua fondazione, quale sia la sua vera strada. Un socialismo moderno, ma le politiche economiche e sociali durante gli anni al governo sono andate in un’altra direzione; la casa dei democratici moderati, ma il rischio di deriva totalmente centrista è sempre pulsante; i sostenitori dei diritti civili, ma i figli e le figlie politiche di Binetti sono sempre dietro l’angolo. Se non si permette a un segretario di delineare la sua linea si resta arroccati nel limbo della sopravvivenza politica, fino a quando qualcuno (l’elettorato, principalmente) non staccherà definitivamente la spina. L’estrema destra al potere non è il risveglio di un’Italia fascista, ma la carenza di un centrosinistra che non ha saputo spiegare alla popolazione ciò che è veramente. Forse perché nemmeno il Pd lo sa, e si tira a campare sperando che un ex democristiano e un ex comunista non affossino la prossima proposta di legge: cosa che prontamente avverrà.