Nel confronto fra Salvini e Renzi abbiamo perso noi

Prima è arrivato l’annuncio di Matteo Renzi lo scorso 19 settembre, poi la conferma il 9 ottobre dello staff di Porta a Porta: nella seconda serata del 15 ottobre, subito dopo Italia – Liechtenstein, il programma avrebbe ospitato il confronto tra l’ex segretario del Pd e Matteo Salvini. Dopo una settimana passata a aizzare i rispettivi follower sui social, i due pesi massimi italiani dell’imbonimento televisivo si sono scontrati in un revival di quanto già accaduto nel 2009 nel programma Omnibus di La7. A distanza di dieci anni, i due Matteo si sono trovati per quello che è sembrato a tutti gli effetti il duello per le primarie del centrodestra.

Parte la sigla di Porta a Porta, viene inquadrato il faccione di Bruno Vespa e il tempo sembra essersi fermato. È lo studio del contratto con gli italiani firmato da Berlusconi, del plastico di Cogne e del conduttore che lancia frecciate contro una donna vittima di violenza. Poi ci sono loro, i protagonisti, sorridenti perché sanno come comportarsi davanti alle telecamere. C’è un’altra presenza molto ingombrante che si percepisce nello studio e anche dal divano di casa: il loro ego.

Quello tra Renzi e Salvini è lo scontro tra due auto rottamati che si reggono sulle dimensioni della loro megalomania. Renzi si è suicidato politicamente con un referendum che lui stesso ha voluto personalizzare; Salvini ha avuto un’estate convulsa e ha passato i mesi seguenti a urlare al complotto contro colui che ha fatto crollare il suo governo, cioè lo stesso Matteo Salvini. Eppure, sono entrambi aggrappati al cornicione del palazzo-Italia con armi a disposizione non indifferenti. Renzi è il padrino del governo Conte bis, è tornato alla ribalta con una strategia machiavellica che lo ha portato a mollare il Pd e creare il suo partito, con la consapevolezza di poter far cadere l’esecutivo in qualsiasi momento. Poco importa lo scarso successo della sua nuova creatura, Italia Viva, secondo i sondaggi tra il 3 e il 5%: ha dalla sua gli uomini giusti in Parlamento e un buon numero di ministri e sottosegretari per tenere in scacco Pd e M5S. Salvini è ancora il leader del primo partito italiano, considerando sia i risultati delle elezioni europee che i sondaggi. Contano ancora qualcosa, ma entrambi hanno negli occhi una luce malinconica: quella di chi sta in panchina mentre al potere ci sono gli altri.

La storia dei confronti televisivi tra politici italiani trova le sue origini nel braccio di ferro tra Berlusconi e Occhetto del 1994. Moderato da un giovane Enrico Mentana, il dibattito è stato lo spartiacque tra la politica dei comizi e quella dei tempi televisivi. Berlusconi non poteva che uscirne vincitore, giocando in casa e avendo inventato lui quella neolingua. Renzi e Salvini, pur essendo diversi tra loro, condividono l’eredità berlusconiana nella comunicazione: entrambi attingono dalla stessa fonte, ma con un’evoluzione nel linguaggio. Adesso persino i tempi televisivi del 1994 sembrano lenti, la dialettica si basa sugli slogan, si parla per trending topic e hashtag, è tutto molto più veloce. Dominano i concetti istantanei e la propaganda verbale, pur rimanendo allacciati alla narrazione di Berlusconi.

Il confronto quindi non può che essere giocato dietro le quinte: chi si è preparato meglio vince. Luca Morisi ha istruito Salvini sulle parole da usare e su quelle da evitare, mentre a Renzi la sua squadra ha consigliato le smorfie di disappunto da mostrare in camera e i tempi per inserirsi. Non è un dibattito sul Paese, ma su due pagine Facebook da milioni di like che entrano in rotta di collisione. Tra i due il politico è Renzi, e si nota subito. Salvini gioca sulla difensiva, così come successo in passato con Boschi e con Boldrini: è il prototipo del bullo che al bar con gli amici alza la voce, ma poi davanti ai suoi presunti pari si inceppa. Renzi è scaltro, si capisce che ha più argomenti a disposizione e una migliore proprietà di linguaggio. Cita a memoria leggi e commi su cui Salvini non riesce a rispondere, costringendolo a sviare l’argomento. Sa che parlare di Papeete e di Milano Marittima, strizzando l’occhio ai commentatori social, non può che andare a suo vantaggio. Riesce a disorientare persino un elettore di centrosinistra, che soltanto durante l’unico stacco pubblicitario si ricorda di aver ascoltato un politico che ha smembrato la sinistra italiana e che ora va a caccia di voti nello spazio vuoto lasciato dagli elettori di Berlusconi.

Nonostante idee politiche marcatamente più vicine alla Democrazia Cristiana che alla, ormai  fu, sinistra, Renzi sa fare il suo mestiere. Nella nobile arte dell’imbonitore televisivo è l’unico a essere un gradino sopra Salvini. La padroneggia proprio perché i suoi concetti sono tutti diretti a un ampio target: all’imprenditore del Nord e alla casalinga del Sud, alla studentessa che scende in piazza per l’ambiente e al cassiere del supermercato. Il problema non è quello che dice – e lo dice bene – ma le conseguenze delle sue parole all’interno di una percezione della realtà che gli altri hanno saputo creare meglio di lui. Salvini e il M5S negli ultimi anni hanno lavorato su quel percepito a tal punto da renderlo reale, e non è un caso che il leader della Lega si sia collegato a quella dimensione anche in questo confronto. Continua a parlare della legge Fornero anche quando Renzi gli ricorda che non è mai stata smantellata, di porti chiusi che non sono mai stati chiusi, di una Flat Tax mai realizzata in modo completo. Per Salvini non conta il fact checking sulle sue affermazioni, ma arrivare allo stomaco del Paese. Sa bene che una smentita passa sempre in sordina rispetto alla sparata iniziale.

Anche quando si parla della nuova manovra finanziaria o della questione siriana i due si sfidano sul piano personale. Gli spettatori esistono solo in quanto clienti da convincere per la vendita di un prodotto. E il prodotto sono i due Matteo. Entrambi attaccano l’operazione militare della Turchia, ma costruiscono le frasi in modo tale da fare un monologo allo specchio. La stessa logica mediatica prevede uno scontro tra pavoni, non un dibattito costruttivo dove i protagonisti sono gli argomenti e i temi trattati: negli ultimi 25 anni il dibattito politico si è inaridito fino a ridursi a un botta e risposta da reality show, con gli elettori che invece che votare televotano.

L’eclissi quasi totale dei temi in favore del personalismo di Salvini e Renzi ha potuto contare sull’assist di livello di un Bruno Vespa perfettamente a suo agio nel ruolo di premuroso padrone di casa, sempre attento nell’evitare qualunque argomento con il potenziale per mettere in difficoltà o in imbarazzo i suoi ospiti. I telespettatori che si aspettavano un ciclo di domande serrate al leader della Lega sul suo coinvolgimento nel Russiagate o sui rapporti sempre più espliciti con le formazioni di estrema destra, fino al suo ruolo di primo piano nello sdoganare razzismo e xenofobia in Italia, sono rimasti delusi. Stesso trattamento di riguardo per l’altro Matteo, che non è mai stato “infastidito” da domande sull’ex ministro Luca Lotti e lo scandalo che ha travolto il Csm o sulla contraddizione di uscire dal Pd subito dopo aver contribuito, anche in modo massiccio, a formare il Conte bis. Tutti argomenti archiviati da Vespa tra i grandi misteri italiani, forse perché troppo impegnato a pensare allo share raggiunto da Porta a Porta grazie allo scontro tra l’ego dei due Matteo.

In quest’ottica la strategia è chiara: Renzi fa il ruolo dell’hater di Salvini sul web, mentre Salvini fa Salvini. Quando il leader leghista viene accusato di pensare più alle sagre e alla sua pancia che alle riunioni europee lui replica dicendo che ama l’Italia delle sagre e dei campanili. Critica virale contro risposta demagogica. Renzi si appropria del verbo “rosicare” usandolo contro l’avversario, che replica sorridendo e indossando, per una sera, la maschera dell’uomo che incassa i colpi senza batter ciglio. Ma è una scelta studiata a tavolino: sa che il pubblico di Vespa non è quello di Facebook e nemmeno quello dei suoi comizi, quindi si sforza di essere rassicurante, non alzare i toni e sembrare quasi riflessivo. Al contrario, nelle piazze o nelle dirette social deve necessariamente spargere odio, usare un linguaggio più colorito e passare all’attacco contro il bersaglio di turno. È una partita a scacchi dove nessuna mossa è azzardata: entrambi vogliono portare a casa qualche punto in più nei sondaggi e per farlo sfruttano tutti gli artifici retorici a disposizione. Citano i figli, gli zii vigili, i buoni sentimenti, la nazionale di calcio: nello studio di Vespa devono essere tremendamente italiani, e sanno farlo bene.

Quando il dibattito finisce e la televisione viene spenta, ci si accorge di aver assistito a un’esibizione, al wrestling della politica. Dell’ora e mezza di confronto non rimane nulla: intanto perché conta più il lavoro silenzioso di una ministra come Lamorgese che uno slogan lanciato a beneficio dei riflettori, e poi perché niente di ciò che è stato detto avrà una ripercussione diretta sul nostro futuro. È stato un regolamento di conti personale, il capriccio di due uomini che si nutrono di attenzioni e le bramano in ogni occasione. I titoli di alcuni giornali e i post sui social parleranno di un “Renzi che asfalta Salvini”. È vero, il vincitore del confronto è stato lui, ma si è trattato di una sfida ego contro ego, ma il Paese reale, ancora una volta, è stato dimenticato.

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