L’8 marzo è stata una giornata di sciopero generale e mobilitazione femminista internazionale. Le donne e gli uomini di tutto il mondo sono scesi in piazza per manifestare contro le ingiustizie a cui ancora oggi il genere femminile è sottoposto, dalla violenza fisica e sessuale alle discriminazioni sociali e culturali. Anche in Italia, in città come Roma e Milano, in molti hanno aderito all’appello di Non Una Di Meno, il movimento femminista ispirato all’omologo collettivo argentino Ni Una Menos. Non sono mancate le polemiche, specialmente attorno a un gesto dichiaratamente provocatorio, rivendicato dalla sezione milanese di NUDM, che ha fatto i titoli di molte testate: il lancio di vernice rosa sulla statua del noto giornalista Indro Montanelli, personaggio controverso per via del suo matrimonio con una bambina di 12 anni, ma da molti giustificato proprio per via della sua notorietà e cultura.
Altro motivo di querelle, sui social e nelle piazze, è stato un cartello esposto dalla senatrice del Partito democratico Monica Cirinnà, che ha partecipato al corteo a Roma sfoggiando la scritta: “Dio, Patria e Famiglia. Che vita de merda”. Ma se le accuse da destra erano piuttosto scontate, date le affinità con i valori conservatori di partiti come quello di Giorgia Meloni, sembra assurdo che Monica Cirinnà abbia ricevuto critiche anche da parte di chi avrebbe dovuto cogliere il riferimento provocatorio al motto fascista e sessista. Eppure, l’ex ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda, in un tweet ha espresso il suo disappunto, decontestualizzando il contenuto del cartello e dichiarandosi contrario alla messa in discussione dei valori tradizionali.
Lo slogan non dovrebbe suscitare così tanta indignazione, soprattutto se si pensa al significato e al contesto in cui è nato, ovvero il Ventennio fascista, che ne fece uno degli slogan propagandistici più importanti del regime. In “Dio, patria, famiglia” si asserisce il rispetto per la religione cattolica, l’unica considerata degna di essere predicata – non va dimenticato che i Patti Lateranensi tra Mussolini e la Santa Sede sono del 1929; si mette nero su bianco l’amore per la Patria, un amore talmente forte da giustificare la morte in battaglia; si parla di famiglia intesa nel suo senso più tradizionale e univoco, con la donna – o meglio, l’idea che questi avevano della donna – relegata a un ruolo di sudditanza e assoluta fedeltà al marito e a Dio, con l’unica sua mansione “naturale” di prendersi cura della famiglia e di garantire figli per la patria.
Che questa fosse la prospettiva più diffusa lo dimostrano atti come la Riforma Gentile del 1923, che sanciva la nascita del liceo femminile, unica possibilità per le donne di accedere all’istruzione pubblica. Una delle materie di questa scuola era “Lavoro femminile ed economia domestica”. Già dal nome si può ben comprendere l’inferiorità che veniva attribuita alla donna, adibita, per natura, a occuparsi della casa. Diverse sono le storie di donne che, siccome non erano in linea con l’ideologia fascista o per altre ragioni non adempivano ai compiti che questa assegnava loro – come chi soffriva di depressione post partum o chi diceva di non volere avere figli – venivano quindi tacciate di essere “madri snaturate” e spesso internate nei manicomi per essere rieducate.
Un minimo di conoscenza della storia d’Italia avrebbe reso evidente che l’intento di Monica Cirinnà non era certo quello di offendere i credenti, ma quello di rivendicare quei diritti di autodeterminazione e libertà per cui le donne hanno lottato per molto tempo e con molti sacrifici – e che troppo spesso vengono ancora ignorati e messi in discussione. In seguito alle polemiche, la senatrice Cirinnà ha scritto: “ La mia critica non va né alla Chiesa, né alla Patria, né alla Famiglia. Con quella foto ho denunciato il riciclo di uno slogan fascista, criticando chi di quei tre concetti si fa scudo per creare un clima di discriminazione, oscurantismo e regressione culturale”.
E mai come oggi è necessaria una presa di posizione forte e decisa. Si pensi al fatto che Verona ospiterà a fine marzo il World Congress of Families, una manifestazione che attirerà diversi personaggi intolleranti omofobi e misogini, rappresentanti di organizzazioni Pro Life e gruppi di pressione anti-Lgbtq+. Un raduno che può vantare il patrocinio del governo della Repubblica italiana, tramite il Ministro della Famiglia Fontana – che ha più volte dimostrato di avere una visione medievale della famiglia. O ancora si pensi al volantino divulgato l’8 marzo dalla Lega Giovani di Crotone, in cui perfino in una giornata in cui si rivendicano diritti e libertà, si riconferma l’atteggiamento retrogrado del partito di Salvini nei confronti di queste istanze. Per la sezione calabrese infatti, l’autodeterminazione di una donna porta al conflitto con l’uomo, ed è per questo motivo che chiunque sostenga questa libertà offende la dignità della donna.
Chi critica Monica Cirinnà sembra anche dimenticare che coloro che oggi si ergono a paladini della religione cattolica, della famiglia tradizionale e del nazionalismo italiano, sono gli stessi preoccupati per la “razza bianca”, la quale deve essere salvaguardata “dal rischio di essere diluita e contaminata da nuove migrazioni”. Queste persone sono la dimostrazione di come si utilizzino ancora oggi, più o meno indirettamente, slogan fascisti per giustificare quelle che di fatto sono discriminazioni belle e buone. Più che allarmarsi e indignarsi per il cartello della senatrice Cirinnà, ci si dovrebbe allarmare per le polemiche che ha suscitato. Tra i giornalisti c’è chi ha perfino descritto come “fessa” – senza neanche spiegarne il perché – quella che è in tutto e per tutto una rivendicazione antifascista. E l’antifascismo è, e deve sempre essere, alla base della nostra Costituzione e della nostra società.
I media italiani hanno dato maggior rilievo a un cartello provocatorio con un importante messaggio di riscatto e a un atto dimostrativo bollato come “vandalismo”, relegando in fondo al dibattito l’importanza di una protesta globale. Questo significa che, evidentemente, non siamo arrivati a un punto in cui ruoli e stereotipi sociali sono stati completamente abbattuti. C’è ancora un alone di giudizio negativo nei confronti delle donne che rivendicano la propria autodeterminazione e se ci si indigna così tanto per l’aspra – e giusta – critica nei confronti di uno slogan fascista, significa che, evidentemente, esiste ancora un pensiero strisciante affine a quell’ideologia.