Nel 1984 su Rai2 andava in onda il riadattamento televisivo di Luigi Comencini del libro Cuore. Uno dei padri della commedia all’italiana aveva scelto di regalare al grande pubblico la trasposizione del romanzo pedagogico preferito dalle maestre inacidite e bacchettone di tutta Italia, e chi meglio del suo amabile nipote avrebbe potuto interpretare il dolce Enrico Bottini? Il regista di Pane, amore e fantasia aveva optato per una produzione familiare, affidando i costumi alla figlia Paola e approfittando della collaborazione della più famosa attivista/economista/regista Cristina, nonché madre della piccola promessa attoriale. Luigi Comencini, immagino, non si sarebbe aspettato che tutto quel talento drammatico fosse in realtà espresso nel canale sbagliato: il giovane Carlo Calenda, un bel po’ di anni dopo, si sarebbe ritrovato infatti a ricoprire profeticamente la stessa parte del protagonista del libro Cuore, solo che al posto di Garrone – il compagno di scuola proletario, amico del borghesissimo Bottini – trent’anni dopo ci sono gli operai della Embraco, e al posto della scuola elementare c’è una trasmissione televisiva.
Passata l’esperienza con lo sceneggiato a tema risorgimentale e messo da parte il fuoco dell’arte, Carlo Calenda rimane comunque sulle nostre televisioni anche a distanza di molti anni. In realtà, più che rimanerci, Calenda ci ritorna, fino al suo totale exploit durante la campagna elettorale delle ultime elezioni. E si impone con tanta naturale (e ingenua?) prepotenza da farsi desiderare: tutti gli chiedono, “ma insomma, ti candidi o non ti candidi?”, tutti vogliono sapere se la sua ascesa culminerà con il ruolo di segretario del Pd – al quale si è recentemente iscritto, senza troppa discrezione – e tutti si domandano se effettivamente, in questo partito post-Caporetto del 4 marzo e del 18%, la sua presenza rappresenti una linea diretta con Renzi o una ulteriore frattura col passato. I quesiti sono leciti e Calenda – il fu Bottini ormai ex Ministro dagli occhi languidi e dalla dizione curata (a parte qualche piccolissima scivolata che ricorda le radici parioline) – come si dice a Roma, fa il vago. Eppure quella tessera se l’è fatta, e la sventola con orgoglio su Twitter – il suo campo da gioco preferito – mentre tutti si domandano se questa sua ostentata modestia e questa esigenza di defilarsi dietro le quinte del Pd non sia in realtà una semplice e neanche troppo raffinata strategia per caricare di aspettative il giorno in cui invece verrà allo scoperto.
Il suo punto forte, bisogna ammetterlo, è proprio la faccia pulita e la lucida pacatezza con cui risponde alle domande, sia quelle poste faccia a faccia che quelle in forma di tweet. “Io segretario del Pd? Sarebbe ridicolo,” dice da Lilli Gruber, incalzando con frasi emblematiche come “Io sono niente”, riferendosi al suo peso irrisorio ogni volta che viene paragonato a quello di un possibile nuovo leader. La propaganda calendiana, infatti, passa attraverso un punto cardine della sua personalità: grande dialogatore, sia nel bene che nel male. Quando si trova a confrontarsi con gli operai è un sindacalista del ’77 che pensa solo ai diritti dei lavoratori, animato da una sorprendente passione rossa; quando si scontra su Twitter con hater o interlocutori del caso è un sapiente mediatore, a metà tra Burioni e Mentana. Calenda infatti non sceglie la via del blastatore, ma sa comunque trovare il linguaggio giusto per farsi valere, risultare autoironico e soprattutto per mostrare di non essere un semplice quarantacinquenne impacciato che non sa distinguere tra like e follower e che delega a qualche social media manager il confezionamento della sua figura online.
È una qualità molto importante quella comunicativa, in tempi in cui i personaggi politici sembrano dover essere prima di tutto dei personaggi di internet, abili a creare il caso, la viralità, piuttosto che essere muniti di gravitas intellettuale e politica – anzi, quella meglio non averla, se no poi gli elettori ti scambiano per un saputello, un elitario, nonostante tu sia cresciuto nei circoli della Roma chic e intellettuale. E in un momento in cui i tuoi peggiori avversari sono giganti del self-branding come Salvini e Di Maio (senza contare il genio assoluto della propaganda online, Alessandro Di Battista, tra pannolini e viaggi in motocicletta alla scoperta dell’umanità) sapere come utilizzare al meglio quei 280 caratteri non è una cosa da poco. Come non è cosa da poco saper prendere per le corna una temibile Iena che ti inchioda a un festival: Carlo Calenda la gestisce bene, ribalta le domande in modo da far passare la Iena stessa per quello che è (un provocatore). Uno a zero per il Pd.
Altro aspetto importante per l’ascesa di Calenda è l’indiscutibile bontà del suo messaggio: “La paura ha diritto di cittadinanza”, si sente dire spesso tra comizi di +Europa in campagna elettorale – alla quale lui ha preso parte attivamente, ma non da candidato – e talk show, ed è impossibile dargli torto. Contro un falso spirito di ottimismo cieco (quello che lui accusa essere stato parte della disfatta del Pd) che vede il futuro come un’isola felice piena di arcobaleni e sorrisi per tutti, Calenda si pone con un atteggiamento di paterno realismo. Non è esattamente una fredda propensione alla Realpolitik di stampo bismarckiano, ma più un monito rassicurante per il presente: avete ragione ad avere paura, ma negare l’esistenza di un problema non è la soluzione. Così come riesce perfettamente nella sciagurata missione di dare qualche speranza a centinaia di operai che rischiano il licenziamento per colpa della delocalizzazione dello stabilimento. Una dote che non è sfuggita a chi gli sta attorno, tanto da spingere a commenti come quello di Marco Damilano ospite a Otto e ½, che scherza: “Se non sapessi chi è lei, sembrerebbe un rappresentante di Potere al Popolo.” E, in effetti, una certa schizofrenia ideologica sembra essersi impossessata del pupillo di Roma Nord, che sembra agire – pubblicamente – mosso da un certo furore adolescenziale, quello che lo spinse a iscriversi alla Fgci quando era ancora uno studente del Mamiani, tanto da fargli twittare addirittura una certa apertura alla riscoperta degli scritti del giovane Marx. Perché nel frattempo, tra gli anni del liceo e quelli dell’età adulta, Calenda sembra essersi mosso in tutt’altra direzione.
E per capire meglio cosa è successo tra il libro Cuore e la campagna elettorale del 2018, che cosa abbia posto le basi per la Bildung di Carlo Calenda, bisogna tenere in conto le sue esperienze lavorative e politiche pregresse. Non è che sia proprio spuntato fuori da un circolo operaio di Testaccio, visto che prima del Ministero la sua principale occupazione era quella di fidato assistente di Luca Cordero di Montezemolo (con un’esperienza anche a Sky Italia, sempre in qualità di manager). Con Montezemolo, infatti, ha cominciato a muovere anche i suoi primi passi in politica da adulto, e non da pariolino che gioca alla rivoluzione: fa parte di questo visionario think tank dell’eccellenza imprenditoriale italiana, Italia Futura, che spalleggia Mario Monti nelle elezioni del 2013. Dello yacht club che vuole cambiare il Paese fanno parte anche nomi come Diego Della Valle, Corrado Passera, Enrico Letta, ma l’esperimento non ha un gran successo e il talento di Calenda viene reindirizzato più avanti in altri ruoli, fino addirittura a guadagnarsi una bella posizione di Rappresentante permanente nell’Unione Europea, nonostante non sia un diplomatico. Dei suoi anni rampanti alla Ferrari, Calenda conserva soprattutto una spiccata propensione verso la privatizzazione, che non manca di confermare pubblicamente, e una grande passione per la cosiddetta terza via á la Tony Blair.
Che Carlo Calenda abbia i numeri per succedere a Matteo Renzi, in questo scenario post-apocalittico, sembra abbastanza evidente, nonostante lui stesso pratichi regolarmente un’opera di modestia francescana rispetto al suo ruolo all’interno del Pd. Si presenta come un filantropo che per il bene del Paese sarebbe disposto a mettere da parte anche quella piccola tentazione di prendere in mano le redini del partito di centro-sinistra più sfatto e smembrato d’Europa. In effetti, sarebbe proprio una meravigliosa favola politica: dopo mesi in sordina, dopo aver seguito solo la sua vocazione al miglioramento della res publica, sarebbe un bel colpo se venisse chiamato a dirigere la voce di popolo, come una sorta di messia. In tal caso, dunque, vorrebbe dire che Carlo Calenda è una sorta di versione 3.0 di Renzi: più simpatico, più ricco, più umano (altro tema a lui caro, l’umanità, quella che i braccialetti di Amazon rischiano di minare), e probabilmente ancora più di destra. Se il Partito Democratico vuole compiere definitivamente la sua trasformazione in una forza che di sinistra ormai ha solo i ricordi del liceo in occupazione, allora che Carlo Calenda si faccia avanti. Se invece, magari, anche prendendo spunto da realtà come quella del Labour Party di Corbyn, e considerato che a quel 18% ci è arrivato con le sue mani, il Pd avesse voglia di riscoprire il brivido della sinistra, magari in quel caso il piccolo Enrico Bottini lo lascerei a gestire gli affari di Montezemolo, più che quelli di Montecitorio.