La triste realtà di un'Italia che sente il bisogno di riabilitare Craxi

La sera del 29 aprile del 1993 gli uomini della scorta di Bettino Craxi gli chiesero invano di uscire dal retro dell’Hotel Raphael, dietro piazza Navona. Nel piccolo Largo Febo, uno degli angoli più affascinanti di Roma, già da un paio d’ore si era formata una folla sempre più rumorosa che brandiva biglietti da mille lire e cantava sull’aria di Guantanamera: “Vuoi pure queste? Bettino, vuoi pure queste?”. Craxi, essendo Craxi, decise che non si sarebbe lasciato intimorire da quella che riteneva una manifestazione organizzata dai suoi avversari politici e uscì dall’ingresso principale. Ma a quel punto si lasciò intimorire eccome. “Ho provato per la prima volta sulla mia pelle lo squadrismo”, disse poi.

Non c’è motivo di dubitare che si sia trattato di un vero choc per lui, al termine di una giornata particolarmente drammatica. Ma nel filmato il tragitto tra la porta dell’hotel e l’auto blu non dura più di quattro secondi, durante i quali gli agenti di polizia gli fanno da scudo umano. Il largo era pieno, ma anche piuttosto piccolo. E sì, i manifestanti stavano tirando “Di tutto! monetine, pezzi di vetro, di tutto!”, come gridò al microfono dell’inviata Rai Valeria Coiante, ma non fu certo un episodio di squadrismo, nel senso che il termine ha sui libri di Storia di cui Craxi era avido lettore. Non fu certo l’azione di una banda armata nei confronti di un avversario politico inerme. Craxi era ben difeso, dalle forze dell’ordine di uno Stato che aveva appena deciso – con un voto del Parlamento – di non indagare su quattro delle sei accuse che i magistrati gli rivolgevano. La decisione era stata accolta con rabbia da una parte rilevante dell’opinione pubblica, e qualcuno aveva deciso di aspettarlo fuori dal Raphael. E forse non sarebbe stato questo macigno sulla sua traiettoria politica se per una volta avesse deciso di essere un po’ meno Craxi e di uscire dal retro. In fin dei conti era il 1993, non era certo il primo leader politico a rimediare fischi e monetine, né sarebbe stato l’ultimo.

Dopo quasi trent’anni passati all’ombra di politici di caratura spesso di molto inferiore alla sua, almeno per cultura e strategia, saremmo tentati di rivalutare Craxi almeno come statista. Forse per la mia generazione, quella dei nati negli anni Settanta, è una questione di imprinting. Nel 1993 ero una matricola universitaria e detestavo Craxi da quando ne avevo coscienza e cioè al massimo da dieci anni: come tutti i politici del periodo, avevo imparato a riconoscerlo dalle caricature di Forattini sulla prima di Repubblica. Spadolini era quello nudo, Andreotti quello quadrato, Craxi era vestito da Mussolini, e molto spesso al balcone. Da un certo punto in poi diventò una questione tribale, come per qualsiasi altra cosa negli anni Ottanta: o si era per Prince o per Michael Jackson, non c’erano mediazioni possibili; per i Duran Duran o per gli U2, non erano contemplate possibilità di dialogo (solo relazioni clandestine). Quanto a Craxi, lo si detestava come si detestavano i personaggi arroganti di Dallas, Dynasty e in generale tutte le fiction che venivano imposte dai genitori. In seguito avremmo avuto tutto il tempo e l’agio per rivalutare qualsiasi scemenza di un decennio a conti fatti abbastanza spensierato, ma questo non annulla le ottime ragioni che avevamo per detestarlo mentre lo vivevamo. Rifiutare l’estetica del disimpegno, notare le contraddizioni e le incongruenze nella narrazione del benessere, sentirsi semplicemente tristi nel bel mezzo di una festa di adulti: una cosa molto adolescenziale, eppure del resto eravamo davvero adolescenti e Craxi e Andreotti sembravano eterni, parte del paesaggio, come la mafia e l’inflazione. Mani Pulite arrivò come il grunge: non ci speravamo nemmeno, non credevamo di meritarcela, eppure da un giorno all’altro li mandò a casa tutti.

Tutto ciò però rientra in un atteggiamento – se vogliamo – infantile, ormai siamo cresciuti e soprattutto abbiamo avuto trent’anni per elaborare un’analisi politica a mente lucida. Anni in cui abbiamo persino rivalutato i Duran Duran. È davvero possibile farlo anche con Craxi?

A volte ho il sospetto che sia anche responsabilità dei craxiani, una tribù ormai minuscola ma irriducibile, che a ogni anniversario si riversa in televisione e sui giornali impossessandosi dell’argomento. Non importa quanto tempo sia passato, e quante impressioni nel frattempo uno abbia accumulato: basta accendere la tv, sentirli parlare e le mani corrono al portafoglio, alla ricerca di altre mille lire che vorresti di nuovo brandire in favore delle telecamere. Un episodio che, capitasse oggi a un politico di rango analogo, sarebbe liquidato da un Salvini o da un Renzi con un #abbraccio o un #ciaone, a distanza di quasi trent’anni è ancora raccontato dagli orfani e dai vedovi di quella stagione con accenti epici. Ogni tentativo di santificare Craxi si scontra con questo problema: la cosa più tragica che in Italia viene ricordata del suo declino, l’apice della lotta al sistema politico corrotto che aveva contribuito a costruire, è una pioggia di monetine. Certo, se Craxi fosse rimasto in Italia avremmo visto scene assai più tragiche, ma lui per primo non se l’è sentita. Va biasimato per questo. Dopotutto era stato Craxi stesso a costruire il suo stesso personaggio, con molta attenzione per i costumi e l’intonazione della voce. Craxi in questo modo ha finito per impersonare quel tipo di eroe greco la cui hybris gli Dei non si stancano di punire per il peccato che ha commesso. E Craxi di peccati ne ha commessi ben due: il primo è la collusione con un sistema corrotto; il secondo è che per un intero decennio ha voluto e creduto di poter diventare il Mitterand italiano, di mettere sotto scacco la Dc e di poter profittare dell’esaurimento ideologico del Pci; ha creduto di poterci riuscire da solo, con una strategia attendista che faceva a pugni con quel “decisionismo” che credeva di impersonare. Per tutto quel tempo il suo partito non ha mai superato il 15% dei suffragi. Malgrado questo, però, Craxi puntava davvero alla Grande Riforma presidenziale: non molto diversamente da Renzi nel 2016 (Renzi che in questi giorni lo ha ricordato con una certa ammirazione) da Berlusconi in passato, riteneva che gli italiani, messi di fronte a una scelta secca tra lui e chiunque altro, avrebbero scelto lui. Si sbagliava, e non di poco: oggi lo sappiamo con certezza, ma non era poi così difficile capirlo anche allora. Gli elettori comunisti non gli avrebbero mai perdonato l’abolizione della Scala Mobile, e su un piano più tribale l’imboscata del Congresso Psi del 1984, quei fischi a Berlinguer da cui non aveva preso le distanze (anzi: “Se sapessi fischiare, fischierei anche io”). Gli elettori della sinistra cattolica non gli avrebbero mai perdonato il tradimento di De Mita, il patto col camper con Andreotti e Forlani, al punto da applaudire ai propri ministri che si dimettevano dal governo Amato piuttosto di non votare il decreto salvaberlusconi voluto da lui: quel momento che più di tutti preannunciava la fine della Dc e della Prima Repubblica, se non già l’inizio dell’Ulivo. 

Al di fuori del suo partito – trasformato a metà anni Ottanta in un’estensione del suo ego – Craxi era fortemente impopolare, ma non è mai sembrato preoccupato della cosa e forse non ne era nemmeno consapevole, come capita agli uomini potenti quando la salute declina e i cortigiani cominciano a stringere il cerchio. Fino a quella fatidica pioggia di monetine, che più che un linciaggio fu una doccia fredda. Gli italiani non si sono accontentati della versione dei fatti che ha reso in Parlamento, incolpando l’intero sistema per sminuire le responsabilità dei singoli corrotti, per poi fuggire in Tunisia e fare il martire con vista mare.

In seguito abbiamo avuto più di un’occasione per riflettere sulla complessità di un sistema che si dice democratico ma che rende impossibile per i partiti finanziare le loro attività (situazione denunciata con impeto da Craxi sotto la voce ipocrisia, durante il discorso pre-monetine); abbiamo scoperto che i quotidiani funzionano davvero come macchine del fango, condannando gli indagati molto prima che se ne celebrino i processi; abbiamo verificato come i magistrati abusino spesso di intercettazioni e detenzioni preventive. Insomma abbiamo avuto tutto il tempo che ci serviva per ammettere che Bettino Craxi diceva la verità sulle profonde contraddizioni e le aberrazioni diffuse del nostro Paese, e che quello che è stato tramandato come un linciaggio non lo è stato affatto: qualche monetina lo mancò di diversi centimetri, qualche manifestante gli sventolò da lontano banconote di mille lire. Craxi, che nel discorso del 29 aprile aveva accettato di rappresentare gli anni Ottanta italiani e ne rivendicava i progressi, rappresentava anche una classe dirigente che assistette impotente al quadruplicarsi del debito pubblico. Quello stesso debito che stiamo ancora pagando tutti, e che forse spiega meglio di tante parole quanto sia difficile riabilitarlo davvero come personaggio della Storia politica del nostro Paese.

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