Il ritorno di Silvio Berlusconi sulla scena politica nazionale è ormai un fatto. Il 4 marzo prossimo, data in cui gli italiani torneranno alle urne, troveranno ancora una volta il suo nome a campeggiare sul simbolo di Forza Italia, malgrado l’inquilino di Arcore sia ineleggibile («Hanno deciso dirigenti e militanti del partito – ha dichiarato in una recente intervista – contro la mia volontà, io non ho ambizioni politiche»). L’ex cavaliere – nonostante l’età, gli acciacchi e le tante grane giudiziarie – è stato in grado di ricucire il centrodestra utilizzando il suo partito non più come forza egemone della coalizione, bensì come collante, ed è riuscito nell’impresa non semplice di tenere a bada le mire di Matteo Salvini. Ma quella dell’ex premier non è solo un’abile operazione di mediazione politica: il centrodestra del 2018 è assai diverso da quello dei tempi d’oro (Berlusconi, Casini, Bossi, Fini, per intenderci) e si adatta meglio di tutti gli altri competitor all’attuale legge elettorale, potendo contare su un mix ben amalgamato di populismo e potere economico. Il vecchio Silvio gioca oggi nell’inedito ruolo di coach moderato, facendo da contraltare alle violenze verbali e di intenti del leader della Lega – utili a trainare sulla coalizione il voto delle fasce meno alfabetizzate della popolazione, spaventate da inesistenti invasioni provenienti dall’Africa. Un paradosso per chi ricorda gli eccessi di Berlusconi prima del 2013: dalle corna in occasione della foto di gruppo dei leader UE al famigerato discorso del 2 luglio 2003. In occasione dell’inizio del semestre di presidenza italiana al Parlamento Europeo, il Presidente del Consiglio, rivolgendosi all’allora capo della delegazione Spd a Strasburgo Martin Schulz, disse testualmente: «Signor Schultz, in Italia c’è un produttore che sta preparando un film sui campi di concentramento nazisti, la proporrò per il ruolo di kapò».
Ma il passato è passato e la memoria degli italiani è sempre più corta. Così, come se il Parlamento italiano non avesse mai accolto la tesi secondo cui Berlusconi riteneva realmente che Ruby Rubacuori fosse la nipote dell’ex presidente egiziano Hosni Mubarak, la coalizione guidata da Berlusconi è in testa secondo tutti gli istituti di sondaggi che ne registrano una crescita costante. Una crescita che potrebbe portare l’alleanza a superare abbondantemente la soglia del 40%. Che il “Silvio nazionale” avesse sette vite come i gatti si era intuito già nel 2013, quando – contro tutte le previsioni – il Popolo delle Libertà raccolse il 29,18% dei consensi (quasi 10 milioni di voti), ma probabilmente nessuno avrebbe mai puntato un euro su una sua vittoria nel 2018. La staffetta tutta interna al centrodestra vede al momento il partito del leader leggermente in testa rispetto alla Lega. Forza Italia è infatti quotata su una forbice che va dal 17,5 di Tecnè al 14,8% di SWG, mentre il partito di Salvini si attesterebbe tra il 14,5% di Euromedia e il 12,1% di Ixè. In gioco c’è l’asse politico del futuro governo e ovviamente il peso che avranno le varie componenti che lo formeranno. L’obiettivo dichiarato è l’autosufficienza, indispensabile per dar vita a un esecutivo senza chiedere voti agli altri partiti, in particolare al Partito Democratico che arranca e paga a caro prezzo la scissione e la non alleanza con Liberi e Uguali. Il partito di Renzi è stimato tra il 26% (Istituto Piepoli) e il 22,8% (Ixè), mentre quello guidato dall’ex presidente del Senato, Pietro Grasso, viene dato tra il 7,9% (Tecnè) e il 6,4% (Euromedia). Un risultato non troppo deludente in numeri assoluti, ma pressoché inutile se sommato all’assai ridotto peso politico degli alleati. Di fatto la coalizione di centrosinistra è solo il Pd più qualche piccolo “cespuglio”.
Con il Pd alle corde, il nemico dichiarato di Berlusconi e dei suoi alleati diventa il Movimento 5 Stelle, che prende il posto dei pericolosi “comunisti” evocati fino al recente passato. Se l’alleanza di centrodestra dovesse infatti fallire l’obiettivo dell’autosufficienza, il Presidente della Repubblica potrebbe scegliere di affidare il mandato esplorativo a Luigi Di Maio (che difficilmente riuscirebbe a trovare i numeri per formare un governo), costringendo centrodestra e centrosinistra a trovare un’intesa forzata su un governo di larghe intese – ipotesi che sfascerebbe entrambe le coalizioni, rimescolando tutto. Tuttavia, i voti che Forza Italia continuerà a recuperare fino al 4 marzo potrebbero arrivare proprio dal Movimento di Beppe Grillo. Il motivo è molto semplice: gran parte dei voti che il centrodestra ha o punta a recuperare sul campo provengono proprio dal partito della Casaleggio Associati, che dopo la caduta dell’ultimo governo Berlusconi ha assorbito gran parte di quel “pubblico” assai permeabile alle parole d’ordine del populismo. Se la tendenza si confermerà, il 4 marzo i grillini potrebbero bucare anche l’obiettivo di risultare primi per voti di lista, superati in extremis da un acciaccato Pd dalle parti del 25%. Per “sgonfiare” il Movimento 5 Stelle, l’impianto mediatico che verrà utilizzato dal leader e dai suoi alleati si sta palesando sempre più e si fonda su due capisaldi: mostrare l’incapacità e l’inadeguatezza degli esponenti del partito di Grillo e posizionarsi sulle loro parole d’ordine e i temi sentiti dal loro elettorato. Il primo violento attacco è arrivato il 26 novembre scorso, quando durante la Convention programmatica organizzata da Forza Italia, Berlusconi ha smontato la candidatura a premier di Luigi Di Maio senza troppi giri di parole: “I Cinquestelle hanno un frontman che si chiama Di Maio, un faccino pulito, che ha fallito alle facoltà di Legge e Ingegneria e ha fatto solo un mestiere: lo steward al San Paolo per vedersi gratis le partite del Napoli». Un passaggio velenoso diretto al grande tallone d’Achille del M5S: l’impreparazione di gran parte dei suoi esponenti e soprattutto del suo candidato, che spesso ha mostrato enormi lacune di cultura generale.
Ci sono poi – come detto – le promesse elettorali su temi cari all’elettorato grillino. Si va dallo stravolgimento della Legge Fornero all’abolizione del Jobs Act – “È stata un’iniezione che ha dato una provvisoria spinta ma solo ai contratti a termine”, ha detto il leader di Forza Italia in una recente intervista – e ovviamente le pensioni minime a mille euro. La ciliegina sulla torta è delle ultime ore, con la proposta avanzata da Matteo Salvini di abolire l’obbligo di vaccino dalla legge Lorenzin. Insomma, il dubbio che Silvio vuole instillare nelle menti di chi nelle ultime tornate elettorali ha scelto di dare fiducia al Movimento 5 Stelle appare abbastanza chiaro: a parità di proposte, perché rischiare di finire come la Roma di Spelacchio?