I media esteri non hanno preso molto bene i trionfi elettorali del Movimento 5 Stelle e di Matteo Salvini, definitivamente consacrato come il delfino di un Berlusconi forse finalmente pronto a farsi da parte. Se dovessimo fare una ricerca semantica sulla base degli editoriali e degli articoli di commento alle nostre elezioni pubblicati all’estero, le parole “populismo” ed “estrema destra” finirebbero per saturare lo schermo, creando una formidabile illusione ottica raffigurante questo soggetto. Oppure questo.
Da Politico al New York Times, fino al Washington Post è facile individuare il fil rouge del commento politico estero alle nostre elezioni: il populismo ha vinto, insieme all’euroscetticismo e all’estrema destra. Un editoriale del Guardian prova a spiegare quanto successo in questi termini: “È facile, per i populisti europei, dare la colpa alle politiche promosse da Bruxelles. Possono promettere il mondo, senza doversi prendere la briga di gestirne i problemi. I partiti del mainstream politico non hanno questo lusso.” Il grande sconfitto, dunque è l’establishment, vincolato dalle più fondamentali leggi dell’economia e della fisica nel momento in cui compone una proposta elettorale.
Non che tale esito sia una sorpresa, come osserva David Broder su Jacobin. La difficoltà nel creare una forza solida e compatta a sinistra del PD si è tradotta in un’emorragia di voti, finiti dritti sotto l’ala amorevole della Casaleggio Associati. La socialdemocrazia ha perso le proprie radici popolari, lasciando un vuoto facilmente colmabile da partiti come la Lega, con la sua dialettica “onesta” e anti-elitaria, o addirittura dal gruppo CasaPound, che in un mini documentario di Channel 4 fa sfoggio del suo spirito assistenzialista: offrendo posti letto, visite mediche gratuite, beni di prima necessità ai bisognosi – a patto che siano italiani, ovviamente.
Eppure, dopo i fatti di Macerata e le tensioni sociali delle ultime settimane di campagna elettorale, qualcuno si era convinto che forse la situazione fosse recuperabile. La smentita è arrivata presto: proprio a Macerata la Lega è stato il partito più votato, lo stesso per cui Luca Traini si era candidato alle comunali qualche anno fa. La demagogia, le goffe dichiarazioni anti-establishment, l’euroscetticismo e un nuovo sciovinismo hanno alla fine avuto la meglio in Italia, il Paese che si è trovato in prima linea nella gestione dell’emergenza migratoria; che, abbandonato a se stesso dalle politiche maldestre di Bruxelles, e frustrato dalle manovre finanziarie dettate dalla BCE, ha deciso di averne abbastanza delle direttive europee e di reclamare, strillando, la propria autodeterminazione.
Il populismo, scrive lo scienziato politico Cas Mudde in un editoriale sul Guardian, è un problema sia europeo che italiano da ormai 25 anni. Quello che stiamo affrontando ora, però, è una forma molto più accentuata e transnazionale: rimane l’elemento del leader carismatico, rimane la volontà di ripulire il Parlamento e mandare via la casta – “drain the swamp”, dite come volete. E a preoccupare davvero i commentatori internazionali, oggi, è il dilagare – in Italia, come in diversi Paesi europei – di agende politiche di stampo fortemente populista, nazionalista e identitario. Basti pensare al caso ungherese o a quello polacco. L’Unione Europea, un’unione incompleta, sta mostrando la propria inadeguatezza di fronte all’urgenza delle sfide attuali. E ora non si tratta più tanto di una sfida tra sinistra e destra, ma di una lotta il cui principale terreno di scontro, per forza di cose, è l’Europa. La politica è diventata non più partitica, ma di tipo identitario, e gran parte di questa identità si esprime in un atteggiamento antitetico nei confronti di Bruxelles.
I commentatori esteri hanno poi sottolineato l’impossibilità (almeno apparente) di raggiungere una maggioranza definitiva, dipingendo le nostre vicissitudini parlamentari come “rinomatamente caotiche”, o semplicemente messy, oppure descrivendole come un pittoresco ma avvincente carosello, come esemplificato da questa stroboscopica gif. C’è però una chiara vincitrice in queste elezioni: la volontà di un cambio di paradigma, come testimoniano la disfatta del Partito Democratico, che stenta a raggiungere il 20%, e il misero risultato di Liberi e Uguali, a malapena sopra la soglia del 3%, così come il trionfo dei partiti che promettevano proprio tale cambiamento, seppur con programmi elettorali nebulosi. Questa necessità non è sentita solo in Italia, ma anche nella Gran Bretagna dell’UKIP, nella Polonia di Diritto e Giustizia, nell’Ungheria di Fidesz.
In molti Paesi del mondo occidentale il populismo anti-sistema, la cui colorazione politica è ormai passata in secondo piano – purché difenda un determinato tipo di identità demonizzandone un altro – è andato a rimediare alle negligenze di una sinistra maldestra, ormai lontana dalla propria base elettorale e cooptata dalle dinamiche di un neoliberismo purtroppo fuori controllo.
Il distacco tra popolo e istituzioni, siano esse di tipo statale o europeo, si allarga sempre di più, lasciando l’assistenzialismo nelle mani di formazioni tendenzialmente non democratiche, che agiscono sull’emotività di una società troppo in crisi per le razionalizzazioni. Steve Bannon, ex chief strategist e co-fondatore dell’emittente di estrema destra Breitbart, che con tutti i suoi difetti perlomeno scemo non è, ha colto il momento storico, e si trova ora in Europa per spianare la strada a una possibile “Internazionale Populista”. Ha incontrato Salvini per tenergli la mano prima delle elezioni, ma poi, in un’intervista a Il Corriere della Sera, ha detto di voler parlare anche agli esponenti del Movimento 5 Stelle e che “[se] si fosse raggiunta una coalizione tra tutti i populisti sarebbe stato fantastico, avrebbe trafitto al cuore Bruxelles.”
Se in queste elezioni, come nel resto d’Europa e negli Stati Uniti, abbiamo assistito a un sempre maggiore antagonismo tra forze di destra e sinistra, parallelamente, il principale terreno di scontro della politica contemporanea è diventato il rapporto con l’establishment, con lo Stato o con le istituzioni europee. Istituzioni che vengono percepite come sempre più inadeguate a interpretare i bisogni sociali ed economici di una popolazione frustrata, alla ricerca disperata di un capro espiatorio. Il disagio si sfoga dunque contro un’impalcatura statale debole e poco coerente, o contro tutto ciò che devia in minima misura da un’identità nazionale sempre più sentita e rivendicata con rabbia.
Quello che è successo in Italia il 4 marzo è quello che sta succedendo a gran parte degli ordinamenti liberali europei. La Francia e la Germania sono riuscite a resistere a questa ondata di revanscismo nazionalista, probabilmente perché aiutate da condizioni economiche più favorevoli, ma il resto d’Europa vi sta facendo i conti. E così mentre Marine Le Pen e Geert Wilders si congratulano con Salvini per i suoi brillanti risultati elettorali, Nigel Farage, ex leader dello UKIP e tra i principali responsabili della Brexit, fa lo stesso con il Movimento 5 Stelle – tra un tweet d’incoraggiamento a Viktor Orbán e l’altro.
Votando contro l’Europa, insomma, l’Italia si ritrova ora più europea che mai.