Sin da quando sono bambino sento parlare di “questione meridionale”. Anche i miei genitori, i miei nonni e via scorrendo fino al 1873, anno in cui il deputato Antonio Billia usò per primo l’espressione riferendosi alla condizione economica del Mezzogiorno e alle arretratezze dei servizi e delle infrastrutture rispetto al Nord nell’Italia da poco unita. I politici dell’epoca promisero di restringere o addirittura annullare il divario tra “le due Italie”, e così fecero tutti i loro successori. Il tema del Mezzogiorno è sempre stato inserito nelle campagne elettorali, d’altronde i voti del Sud sono necessari per salire al potere. Oggi, 151 anni dopo, il Parlamento approva una legge che distrugge definitivamente ogni speranza di riallineamento tra Nord e Sud, spaccando il Paese sotto il sogno secessionista della Lega, tornata per l’occasione a essere Lega Nord.
La Camera ha infatti approvato il ddl Calderoli, meglio noto come autonomia differenziata, con 172 “Sì”, 99 “No” e un astenuto. Rifacendosi alla riforma del titolo V del 2001, l’autonomia differenziata permetterà alle regioni a statuto ordinario di chiedere allo Stato la competenza regionale su 23 materie di politiche pubbliche. Tra queste rientrano istruzione, salute, commercio con l’estero, energia, cultura, ambiente, infrastrutture e servizi vari. Le regioni potranno anche trattenere il gettito fiscale, non più distribuito su scala nazionale. Già da qui si può intuire come le regioni più ricche trarranno vantaggio e quelle più povere saranno ulteriormente discriminate. Il governo ha tentato di indorare la pillola spiegando che i Lep (“livelli essenziali di prestazione”) eviteranno disuguaglianze, perché secondo la Costituzione tutelano i diritti civili e sociali attraverso finanziamenti mirati. Il punto è che questi finanziamenti verranno distribuiti a seconda della spesa storica di una regione. Tradotto: la Lombardia ha una spesa storica più alta rispetto alla Calabria, e quindi il divario aumenterà ulteriormente.
Parliamoci chiaro: è un contentino di Meloni all’ala leghista del governo. Un Do ut des sembrerebbe: premierato da un lato, autonomia differenziata dall’altra, tanto che non è un caso che le due proposte stiano viaggiando parallelamente, con votazioni parlamentari a distanza di pochi giorni. Meloni che, va ricordato, addirittura in passato, nel 2014, aveva chiesto l’abolizione delle regioni e aveva proposto una legge contro il regionalismo differenziato nella quale chiedeva che lo Stato riprendesse l’esercizio delle funzioni al momento in mano alle Regioni, sia a livello amministrativo che legislativo. In pratica l’esatto contrario dell’autonomia differenziata che oggi sponsorizza con orgoglio. E anche creando una certa confusione, visto che parla di “autonomia e coesione” come motore per il futuro della nazione. Sono due parole tecnicamente in antitesi, soprattutto nell’accezione della materia specifica, ovvero quella di una legge che i figli di Pontida attendono dai tempi di Bossi, delle sacre ampolle del Po, di Roma ladrona e dei terroni colerosi.
Il punto è che, tolti i nordisti della prima ora, tutti stanno considerando l’autonomia differenziata un pericolo per la tenuta del Paese. Persino i governatori di centrodestra del Sud l’hanno criticata. La bocciatura più importante arriva direttamente dalla Commissione Europea, che attraverso il Country Report 2024 ha evidenziato l’enorme rischio di aumento delle disuguaglianze regionali e ha parlato di un pericolo per la coesione e le finanze pubbliche del Paese. Le critiche sono arrivate anche dalla Chiesa, dalla Banca d’Italia e da SVIMEZ, l’associazione che promuove lo studio delle condizioni economiche del Mezzogiorno. Proprio il presidente di SVIMEZ, Adriano Giannola, è stato esplicito riguardo l’autonomia differenziata: “Stiamo regredendo e spaccando il Paese in due, è un suicidio collettivo”. Ovviamente sono contrarie anche le opposizioni, che hanno annunciato la raccolta di firme per un referendum abrogativo.
Ciò che però mi colpisce maggiormente è che il progetto sull’autonomia differenziata era già presente nei programmi elettorali della coalizione di centrodestra. Non è sbucato fuori dal nulla. Eppure il Sud ha votato ugualmente i partiti che adesso l’hanno approvata in Parlamento. Viene da chiedersi se gli elettori leggano davvero i programmi dei partiti politici. Su questo non avremo mai una risposta, ma ci sono meno dubbi su quella che considero la sindrome di Stoccolma del Meridione. È come se al Sud si creasse un legame particolare con i propri aguzzini, quei personaggi che lo maltrattano, lo tengono in ostaggio e che vengono ugualmente premiati. Il caso storico più eclatante riguarda il referendum del 1946 che diede vita alla Repubblica italiana. Nonostante decenni di astio contro i Savoia, al Sud votarono a favore della monarchia. Negli anni successivi il Sud è diventato una roccaforte del centrodestra, soprattutto nel periodo berlusconiano, e soltanto Puglia e Campania ogni tanto mostrano segnali progressisti. Le altre ragioni continuano a votare partiti pericolosamente esposti alle infiltrazioni di Cosa Nostra o alla ndrangheta.
Io sono siciliano e certe dinamiche mi hanno assillato da quando ho memoria politica. Abbiamo avuto come presidenti di regione Salvatore Cuffaro, condannato in via definitiva nel 2011 a sette anni di reclusione per favoreggiamento verso persone appartenenti a Cosa Nostra e Raffaele Lombardo, dimessosi nel 2012 dopo l’accusa per concorso esterno in associazione mafiose e voto di scambio, e assolto poi dalla Cassazione, dopo più di un decennio. nel 2023. La regione è stata manovrata anche da personaggi esterni, come per esempio Gianfranco Miccichè, attualmente indagato per peculato e truffa, che in passato si dichiarò contrario alla proposta di intitolare l’aeroporto di Palermo a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, con la motivazione “con questa scelta ci si ricorda della mafia”. A gestire i fili è però sempre stato Marcello Dell’Utri, condannato a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa e definito nelle sentenze ufficiali il mediatore tra Cosa Nostra e Silvio Berlusconi. Le alternative si sono dimostrate inaffidabili, in alcuni casi arrivando persino ad allearsi con il “nemico”. Alle ultime regionali il centrosinistra ha presentato come candidata Caterina Chinnici, figlia di Rocco Chinnici, magistrato ucciso dalla mafia. Poco dopo la sconfitta contro Renato Schifani, Chinnici è passata a Forza Italia, con cui si è presentata alle recenti elezioni europee, risultando la prima tra i non eletti per ordine di preferenze.
La Sicilia è una delle cinque regioni italiane a statuto speciale insieme a Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia e Sardegna. Ha già dei particolari tipi di autonomia, e inevitabilmente ho associato durante la mia crescita questo stato a un malus. Vedendo la mia regione andare a rotoli, ciò che chiedevo era una maggiore presenza dello Stato. I finanziamenti europei venivano bruciati da amministrazioni scellerate, i progetti saltavano, gli appalti venivano bloccati per corruzione, i soldi sparivano. Quando alcune regioni del Nord chiedevano l’autonomia, nella mia mente pensavo: “Non fatelo”. Ovviamente i problemi della Sicilia, soprattutto quelli più atavici, non derivano dal suo essere una regione a statuto speciale, o almeno non direttamente. Nella vicina Calabria, regione a statuto ordinario, vedevo scenari simili: un territorio in mano alla mafia, in quel caso alla ndrangheta. Comuni sciolti per ingerenze mafiose, lo Stato costretto a commissariare la Sanità, infrastrutture da terzo mondo. Qui in Sicilia un treno impiega mediamente otto ore per andare da Catania a Trapani. Eppure la popolazione ha continuato a votare per i suoi aguzzini, per una destra che con i suoi tentacoli ha paralizzato qualsiasi forma di innovazione in cambio del clientelismo e del potere personale. E così anche in Molise o in Basilicata, dove la destra regna sovrana. Se già il Meridione arrancava in condizioni di relativa unità nazionale, con l’autonomia differenziata la disuguaglianza economica e sociale segnerà un punto di non ritorno, condannandoci a essere l’Italia di Serie B.
Sapevamo che la destra al governo avrebbe messo a repentaglio i principi di coesione e di democrazia del Paese; suona quasi inutile il lamento tardivo quando i piani politici erano già stati annunciati. È la versione 2024 del secessionismo leghista auspicato trent’anni fa, l’omaggio di Meloni a un alleato politico che a livello elettorale sta precipitando verso l’oblio, ma che fa comunque parte dell’esecutivo in ruoli chiave. Io non voglio dire che noi meridionali “ce lo siamo meritati”, sarebbe una generalizzazione un po’ troppo audace. Continuo però a chiedermi come un cittadino del Sud possa votare per forze politiche che promuovono esplicitamente la disgregazione del Meridione. Lo so, secondo questa logica nessuna persona omosessuale dovrebbe votare per la destra, e nemmeno nessuna donna, nessun cittadino che ritiene fondamentale pagare regolarmente le tasse, nessuna persona di un’etnia diversa, nessun antifascista. La logica porterebbe a escludere così tante categorie da rendere la destra italiana irrilevante. Invece è al governo, è la coalizione più votata, ha il partito più votato e, soprattutto, ha il potere di spaccare un Paese già martoriato da decenni di malapolitica. E a questo punto che buttassero tutto il Sud nella differenziata. Forse è questo il motivo di tale denominazione, e la questione meridionale messa in evidenza nel 1873 raggiunge oggi il punto più basso di un abisso da cui non riusciamo a riemergere perché dai piani alti non vogliono. Nemmeno da quelli bassi, visto che questi rappresentanti, i nostri aguzzini, li abbiamo votati noi.