Da quando il Consiglio europeo ha nominato Christine Lagarde e Ursula von der Leyen ai vertici rispettivamente della Bce e della Commissione europea, la parola austerity è tornata con forza al centro del dibattito in Europa. Nessuna delle due ha una formazione economica keynesiana: Lagarde ha sempre seguito la scuola monetarista, imponendo lo standard del Washington consensus quando era alla direzione del Fondo monetario internazionale, mentre von der Leyen ha studiato anche alla London School of Economics e si rifà ai principi dell’economia sociale di mercato, una sorta di liberismo moderato.
A Bruxelles molti sostengono che l’esponente della Cdu di origini belghe sia più rigida e conservatrice della cancelliera Merkel, e hanno temuto che per ottenere l’approvazione del Parlamento europeo von der Leyen facesse affidamento sul voto dei sovranisti. In realtà la sua audizione ha convinto sia la maggioranza di Strasburgo, con 383 voti su 733, sia gli analisti più scettici. Ministra della Difesa della Germania dal 2013, la neo presidente della Commissione viene descritta come una conservatrice pragmatica e rigorosa, nota per essere poco amata dai tedeschi che la chiamano “la solista”. Ha idee ben precise riguardo all’austerità sia in politica estera che sui bilanci, come ha dimostrato nel 2011 con la proposta di usare le riserve auree della Grecia a garanzia degli interessi sul debito del Paese. Tuttavia, per lei il futuro economico dell’Europa passa attraverso l’introduzione del salario minimo garantito e si aggancia al massimo di flessibilità consentita dal Patto di Stabilità. Nelle due lettere di risposta inviate ai Socialisti e Democratici e ai Liberali di Renew Europe ha sostenuto che adotterà uno “strumento di bilancio dell’Eurozona” per sostenere riforme e investimenti, oltre che un “sistema europeo di riassicurazione per gli assegni di disoccupazione” nei Paesi colpiti da “shock esterni”.
I dubbi però restano: il Guardian si è chiesto se sia “una liberale che indossa abiti conservatori, o una matrona autoritaria”, mentre coloro che l’hanno ascoltata in audizione si sono fatti l’idea che non sarà una perfetta “guardiana dei Trattati”, ma molto probabilmente sarà anche in grado di applicarli con l’intelligenza e la flessibilità necessarie. L’altra donna del momento, Christine Lagarde, è nota per la sua intransigenza in materia economica: come direttrice dell’Fmi ha avuto un ruolo di primo piano nella dura manovra di salvataggio della Grecia ai tempi della troika, salvo ammettere ad anni di distanza i “troppi errori” fatti nella gestione della crisi ellenica. Ora che Lagarde e Von der Leyen si preparano a ricoprire due ruoli chiave nella politica economica europea, è lecito chiedersi che impatto avrà un’impostazione basata sul rigore, anche alla luce dei Trattati che regolano l’economia degli Stati membri. L’austerity, in effetti, non è un’opinione che cambia insieme ai vertici politici, ma una strategia e un impegno collettivo sottoscritto dai 28 Paesi dell’Ue.
L’intero impianto economico e monetario dell’Europa si basa sul Trattato di Maastricht del 1992, estremamente rigoroso proprio per tenere sotto controllo i bilanci dei singoli Stati. Con il Patto di Stabilità del 1997 il Trattato è stato rafforzato con misure studiate per “garantire la disciplina di bilancio degli Stati membri, per evitare disavanzi pubblici eccessivi e contribuire alla stabilità monetaria”. Tra i criteri fissati a Maastricht, i due mantra assoluti sono di natura fiscale: il deficit di bilancio di un Paese deve rimanere inferiore al 3% del Pil e il debito pubblico non deve superare la soglia del 60% del Pil. Il principale obiettivo di queste limitazioni è prevenire l’inflazione limitando la quantità di moneta in circolazione.
Di fatto, con l’obbligo di rispettare ad ogni costo questi parametri è stato assestato un duro colpo alla sostenibilità del modello europeo di stato sociale, incompatibile con un basso debito e con le riforme strutturali, che si traducono in tagli generali alla spesa pubblica. Il welfare State così come era stato concepito e realizzato in tutta l’Europa continentale a partire dagli anni Sessanta è stato minato da una politica che mette gli indicatori macroeconomici del Pil al primo posto e fa coincidere il concetto di crescita con quello di sviluppo.
Nel saggio la Moralità del welfare del 2008, l’economista Laura Pennacchi ha parlato di “minimalismo” doloso nella successiva costruzione europea, trovandone uno dei picchi negli anni della Commissione europea guidata dal portoghese José Barroso, che avrebbe alterato l’Agenda di Lisbona del 2000 basata sulla “coesione sociale” in favore di una visione schiava dei bilanci economici. L’attacco definitivo al welfare è arrivato però il 2 marzo del 2012 con il Fiscal compact, un patto interno stipulato tra 25 dei 28 stati membri e composto di 24 pagine e 16 articoli. Con il fiscal compact il pareggio di bilancio è stato inserito nella Costituzione italiana, determinando un obbligo ancora più vincolante verso i parametri europei. La sua ratifica condurrà a una forma di “austerità perpetua” e a “un restringimento mortale della democrazia in Europa”, avvertivano già nel 2013 alcuni economisti europei autori del libro manifesto Cosa salverà l’Europa. Critiche e proposte per un’economia diversa.
Dopo gli anni di gestione della Troika che hanno messo in ginocchio la Grecia e portato il Portogallo a una crisi quasi fatale, è arrivata una parziale marcia indietro. Il Fiscal compact è stato percepito come una misura talmente severa e penalizzante per le economie più deboli da spingere il Parlamento europeo a bocciarne l’introduzione nel diritto comunitario nel novembre 2018. I parlamentari hanno anche chiesto alla Commissione di puntare su una politica fiscale più orientata allo sviluppo, al lavoro, alla crescita, facendosi portavoce di un appello firmato da un nutrito gruppo internazionale di economisti che chiedeva di “superare” lo stallo del Fiscal Compact per puntare su politiche di sviluppo anziché sul solo contenimento del debito e tagli alla spesa pubblica.
Anche se la Commissione Juncker dal 2014 a oggi ha cercato di rimediare agli anni di Barroso e in parte ha attenuato l’applicazione rigida dei Trattati, la sostanza resta: l’Unione europea ha come sua priorità la performance macroeconomica dei Paesi membri ed è dominata dai mercati finanziari. “Il problema vero è che c’è stata una disciplina dei bilanci creata ad immagine e somiglianza di quello che volevano i tedeschi, prima con il Patto di Stabilità e poi con la sua riforma nel 2011 che è stata applicata con estrema rigidità da Barroso e poi con molta più flessibilità dalla Commissione Junckerm,” ci ha spiegato il corrispondente da Bruxelles per Askanews, Lorenzo Consoli. “Ma un margine di miglioramento e di flessibilità c’è senz’altro”.
L’impianto dell’austerity a livello teorico in effetti non regge, come sostengono sempre più economisti “pentiti”. Nel 2013 il premio Nobel per l’economia Paul Krugman ha smentito le tesi dei sostenitori del rigore a ogni costo, mentre il lavoro di tre ricercatori, tra i quali un ragazzo di 28 anni, ha portato all’evidenza un enorme errore di calcolo contenuto in uno degli studi “cardine” per l’applicazione dell’austerity in Europa. Si tratta del paper di Harvard che nel 2010 aveva fissato il tetto massimo del debito e del deficit degli Stati, sostenendo che un alto debito pubblico rallentasse la crescita economica e che un rapporto tra debito e Pil oltre la soglia del 90% potesse causare una perdita media di Pil dello 0,1%. Le politiche economiche basate sui limiti suggeriti dallo studio di Harvard hanno dimostrato enormi limiti: il Portogallo, la Spagna, la Grecia e l’Irlanda hanno adottato vasti programmi di tagli, ma il loro debito pubblico è esploso al posto di rientrare entro i limiti di guardia.
Negli anni della Commissione Juncker è tornato in voga il concetto di domanda aggregata, alla base della visione keynesiana che mette la spesa pubblica al centro delle politiche statali da attuare nei periodi di crisi economica, con un ritorno ad una interpretazione meno ortodossa. Nel gennaio del 2015 la Commissione ha introdotto la possibilità di sfruttare la flessibilità sul Patto di Stabilità per interpretare in modo meno rigido le sue norme. Da non scordare che la Commissione può sempre proporre al Consiglio dei ministri dell’Economia e Finanze dei Paesi membri (Ecofin) di scorporare gli investimenti per le opere pubbliche dal calcolo del deficit di uno Stato.
Questi non sono altro che escamotage per evitare di affrontare il vero problema di un’Europa imprigionata dai Trattati. Se l’impostazione non è stata scalfita neanche durante gli anni meno rigidi di Juncker, è difficile che la nuova gestione liberista e pro austerity di Lagarde e quella dell’economia sociale di mercato di von der Leyen possano liberarci dalle catene che noi stessi ci siamo imposti e che stanno erodendo anno dopo anno l’essenza stessa del sistema inclusivo alla base dell’Unione europea.