Non è facile trovare in questo momento un politico con più motivi per dimettersi di Attilio Fontana. Gli errori del governatore della Lombardia e della sua giunta cominciano già dopo l’esplosione del focolaio di Codogno. Fanpage ha pubblicato l’audio di una riunione tra Fontana, il prefetto di Lodi e i vertici della Protezione Civile, risalente al 23 febbraio, in cui si parla di diciannove comuni delle province di Cremona e Lodi e dell’urgenza di farli diventare zona rossa. Sembra tutto pronto, dal dispiegamento dell’esercito ai posti di blocco, e il prefetto attende soltanto il via libera della giunta regionale. Autorizzazione che non arriva, con la conseguente crescita esponenziale dei casi.
Qualche giorno dopo, il 4 marzo, Fontana e l’assessore al Welfare Giulio Gallera incontrano il ministro della Salute Roberto Speranza, come documentato da un audio pubblicato dal Corriere della Sera. Discutono della possibilità di istituire la zona rossa nei comuni di Nembro e Alzano in val Seriana. Fontana e Gallera appaiono spaesati, non pronti a prendersi la responsabilità di decidere autonomamente. E infatti non lo fanno, a differenza di altre regioni. Più avanti ammetteranno che avrebbero potuto farlo anche loro, limitando i danni.
Per capire il pressapochismo nella gestione dell’emergenza basta ricordare che la delibera per la gestione sul territorio lombardo del COVID-19 è arrivata soltanto il 23 marzo, un mese dopo l’individuazione del focolaio di Codogno. Prima di quel giorno i medici hanno agito senza indicazioni regionali precise. Nel mentre il numero di tamponi era inferiore in percentuale a quello di altre regioni, pur essendo la zona più colpita d’Italia (e all’epoca del mondo). Situazione aggravata dall’eredità di decenni di amministrazione del centrodestra, con 8,5 posti in terapia intensiva ogni 100mila abitanti – meno di quelli di Emilia Romagna e Veneto –, poi lievemente cresciuti dopo il febbraio 2020.
Un altro tassello della cattiva gestione riguarda la scelta della Regione di dare la possibilità di ricoverare i malati di COVID-19 presso le Rsa che si ritenevano attrezzate per farlo, con l’intento di liberare posti letto negli ospedali. La delibera della giunta ha causato migliaia di decessi tra gli ospiti delle strutture, con il tasso di mortalità più alto registrato in Italia. Nel prendere queste decisioni, Fontana e la sua giunta hanno ignorato il parere di gran parte del personale e professionisti coinvolti nell’emergenza, tanto che l’Ordine dei Medici della Lombardia ha dovuto scrivere una lettera per far sentire le sue ragioni, indicando i principali errori della Regione, tra cui la mancanza di dati certi sulla diffusione della pandemia, il tentennamento nella chiusura di aree a rischio, il dirottamento dei positivi nelle case di riposo, la scarsa quantità di tamponi, la mancanza di protezione individuale per il personale sanitario e, in generale, l’assenza di un vero e proprio governo del territorio.
Dopo aver smentito la leggenda politica del buongoverno della Lega a livello locale, tra scelte disastrose, delibere sconsiderate e un’inadeguatezza che ha messo a repentaglio la salute dei lombardi, Fontana è incappato in uno di quei piccoli grandi scandali che il Carroccio conosce bene: un guaio giudiziario che mette insieme paradisi fiscali, milioni dalla provenienza misteriosa, conflitti d’interesse, sospetto abuso di potere ed errori “a sua insaputa”. Il tutto mentre la sua regione stava sprofondando.
La vicenda di Fontana non segue un unico filone, in quanto vengono aggiunti ogni giorno nuovi tasselli. Tutto è nato da un’inchiesta mandata in onda l’8 giugno dalla trasmissione Report, che ha scoperto uno strano legame tra una società, la Dama S.p.A., e la regione Lombardia. Il 16 aprile, in piena emergenza Coronavirus, l’Aria, la centrale acquisti della Regione Lombardia, ha assegnato alla società Dama una fornitura per camici e altri dispositivi di protezione per un valore di 513mila euro. La commessa è stata ottenuta dalla Dama senza gara pubblica, ma soprattutto è emerso un dettaglio: la società appartiene ad Andrea Dini e per il 10% alla sorella Roberta Dini, rispettivamente cognato e moglie di Fontana.
Report inizia a indagare sulla vicenda a maggio, e la notizia arriva anche in regione Lombardia. Così Andrea Dini decide di fare un passo indietro e comunica al direttore generale di Aria, attraverso una mail inviata il 20 maggio, di trasformare il contratto di fornitura in una donazione. La Dama storna le fatture e rinuncia alla paga per la prima tranche di camici consegnati. In un’intervista uscita sul Corriere della Sera del 7 giugno Fontana dichiara: “Non ne sapevo nulla e non sono mai intervenuto in alcun modo”. Affermazione smentita dal fatto che il 19 maggio il governatore tenta di effettuare un bonifico da 250mila euro in favore di Andrea Dini. Inizialmente lo considera un risarcimento per il cognato, poi ne parla come un contributo alla donazione per la sanità lombarda. Qui entra in gioco il secondo filone della storia: per le norme antiriciclaggio la fiduciaria blocca il bonifico e lo segnala alla Banca d’Italia. Quei fondi sono infatti sospetti.
La provenienza di quei soldi viene scoperta nel corso delle indagini. Si parla di 5,3 milioni di euro su un conto intestato negli anni scorsi alla madre di Fontana e gestito da un trust alle Bahamas. Intervistato da Repubblica, Fontana dichiara che era un conto non operativo da decine di anni, almeno dalla metà degli anni Ottanta. Per l’ennesima volta la versione di Fontana sembra non torni. Secondo quanto riportato dalla newsletter di Domani, ripresa dal Post, il conto risulterebbe essere stato aperto, invece, nel 1997 e nel corso dell’ultimo decennio ci sarebbero stati alcuni importanti movimenti di denaro: in particolare, depositi e prelievi di centinaia di migliaia di euro a cavallo tra il 2010 e il 2011. Dopo la morte della madre, avvenuta nel 2015, Fontana decide di ricorrere allo scudo fiscale grazie alla legge sulla voluntary disclosure, dichiarando l’esistenza di quei fondi. Non li riporta però in Italia, bensì in Svizzera, affidandoli con il mandato fiduciario a una società terza. Quindi non soltanto il conto era operativo, al contrario di quanto dichiarato dal governatore, ma viene da chiedersi perché un’anziana quasi novantenne dovesse fare trasferimenti di fondi in un paradiso fiscale. Sarà la magistratura a dare la risposta.
C’è un’ulteriore incongruenza: quando viene annullata la fattura, trasformandola in donazione, le note di credito riportano 359mila euro: mancano 150mila euro. I 25mila camici mai consegnati sono stati trovati dalla Guardia di Finanza nella sede della società del cognato di Fontana. Inoltre sono emerse delle chat in cui il cognato provava a vendere i 25mila camici a una onlus varesina prima di informare la regione Lombardia della donazione. 9 euro a pezzo, 100 in omaggio ogni 1000 venduti. L’accordo non è andato a buon fine. Intanto Fontana è stato indagato per frode in pubbliche forniture.
Pur a fronte di un quadro di attendibilità così compromesso, la Lega si è stretta attorno a Fontana senza mostrare alcun imbarazzo. Il calo del partito nei sondaggi è molto probabilmente conseguenza dei disastri leghisti in Lombardia durante l’emergenza COVID-19, e un altro scandalo sarebbe un duro colpo per Salvini. Nonostante i tentativi di conquista del Sud, la Lombardia resta la roccaforte leghista per eccellenza insieme al Veneto, il nucleo da cui parte ogni diramazione a livello nazionale. Il crollo di Fontana comprometterebbe la credibilità già di per sé deteriorata del partito. Per tale motivo Salvini si è affrettato a scagionare il suo uomo chiave: “Fontana è un gentiluomo, lo indagano per una donazione”. Ridurre quanto sta emergendo dalle indagini a “una donazione” è tipico del leader leghista: occultare, convincere i suoi seguaci che tutto sia un’invenzione dei media, dei nemici politici e della magistratura, per poi ridicolizzare la vicenda stessa. Non ha perso tempo quindi a commentare con toni aspri: “È una schifezza, questa è una giustizia alla Palamara”. Dopo gli attacchi con slogan sono arrivate le difese con slogan, con parole chiave che ricordano da vicino le strategie di Berlusconi per smarcarsi dagli scandali. È questa la vera eredità che il Cavaliere ha lasciato a Salvini: inscenare un martirio, dipingersi come dei perseguitati per attutire la gravità delle accuse e far credere che ogni vicenda ruoti intorno ai tentativi di scalfire una loro presunta limpidezza. In pratica, manie di persecuzione.
Non avevamo però bisogno di queste inchieste giudiziarie per farci un’idea sulla competenza di Fontana come politico e amministratore pubblico. Bastava constatare lo stile di governo che da decenni contraddistingue chi occupa il Pirellone: risalgono ai tempi di Formigoni l’erosione delle risorse della sanità pubblica a favore di quella privata, le spese irragionevoli in Regione, la corruzione e il degrado politico. Fontana, insieme alla spalla offerta dall’assessore al Welfare di Forza Italia Giulio Gallera, ha dato sfoggio di quella stessa tendenza leghista ad autoincensare, ad oltranza, l’asserita efficienza di un sistema sanitario snaturato rispetto alla sua funzione – dimostratosi ormai alla prova dei fatti inadeguato a soddisfare le esigenze di cura e tutela della salute della popolazione – e a sovrapporre interessi personali nello stesso ambito in cui si riveste un ruolo pubblico. Viene da chiedersi il motivo per cui non si sia ancora dimesso. Le opposizioni nella giunta lombarda hanno presentato una mozione di sfiducia (con Italia Viva e +Europa che non hanno firmato), ma dovrebbe partire dal diretto interessato la spinta a defilarsi e ad abbandonare il proprio ruolo. Gli elementi per farlo sono talmente numerosi da far sembrare paradossale qualsiasi giorno con Fontana ancora alla guida della Lombardia. Non c’è nessun merito nel suo operato, soltanto scelte catastrofiche, mancanza di trasparenza ed esibita supponenza. In pieno stile Salvini, in pieno stile Lega.