Quando l’estrema destra si raduna a Roma non è mai un buon segnale. Proviamo però a dimenticare l’infausta marcia, i raduni missini con le mazze chiodate, i saluti romani ad Acca Larentia e i tartarugati di CasaPound riemersi dai tombini: Atreju è altro. L’effetto straniante è il tentativo di raggrupparsi sotto l’effige dell’istituzionalità con l’intento di unire il neofascismo all’arco democratico della nazione, i leader estremisti stranieri ai volti televisivi italiani, creando una kermesse che camuffa più che mostrare. È un po’ come il Festival di Sanremo che prova a nascondere il nazionalpopolare sotto il palco e al contempo ne ha bisogno, e dunque chiamano pure un Lucio Corsi, ma per natura un Massimo Ranieri devono buttarlo dentro. Ad Atreju non è nemmeno una questione di compensazione, bensì di legittimazione. Sarà il complesso d’inferiorità per la tanto citata egemonia culturale della sinistra, ma di fatto il teatrino dei dibattiti e dello pseudo confronto democratico sembra un modo per ribadire che i nipoti della mancata Norimberga italiana sono riusciti a diventare, un’ottantina d’anni dopo, pop.
È difficile anche solo capire cosa sia effettivamente Atreju. Nell’immaginario collettivo è ormai diventata la festa ufficiale di Fratelli d’Italia, un po’ l’equivalente di Pontida per la Lega, le vecchie feste dell’Unità per i partiti di sinistra e le cene strategiche ad Arcore per Forza Italia ai tempi di Berlusconi. In realtà è la festa giovanile della destra italiana, organizzata dal 1998 al 2009 da Azione Giovani (Alleanza Nazionale), poi fino al 2014 da Giovane Italia (PdL) e da quel momento da Gioventù Nazionale. Sì, la stessa Gioventù Nazionale delle inchieste di Fanpage, quel sottobosco di fascismo, antisemitismo, razzismo e altri abomini neri. Il filo conduttore dal 1998 a oggi è proprio Giorgia Meloni, un tempo come rappresentante delle organizzazioni giovanili di destra e oggi come presidente del Consiglio. Se dunque gli organizzatori sono gli stessi giovincelli che inneggiano al nazifascismo nell’ombra delle loro sedi per poi approdare al Circo Massimo, il pubblico non può che essere composto dalla claque post missina reclutata per indirizzare un applauso o un fischio, per grugnire quando si parla di coppie omosessuali o esultare quando il Giuseppe Cruciani di turno si lancia nella sua tiritera contro il politicamente corretto. E d’altronde non c’è troppa differenza tra il pubblico di Atreju e gli invasati che intervengono a La Zanzara per chiedere di “cacciare i negri”. Il problema è che le macchiette di uno show trash sono identiche ai leader che hanno calcato quel palco
Il piatto forte di questa edizione è stato Javier Milei, presidente dell’Argentina. Meloni l’ha accolto sul palco dicendo che “sta portando avanti una rivoluzione culturale”. I media italiani hanno minimizzato questa frase riducendo il tutto a un incontro tra due capi di Stato. Eppure il curriculum di Milei parla chiaro: è un estremista di destra che considera il cambiamento climatico una menzogna del socialismo, vuole cancellare l’istruzione pubblica e privatizzare la sanità, è contro l’aborto, l’eutanasia, l’educazione sessuale nelle scuole e a favore del possesso e del commercio libero delle armi da fuoco. Il suo pensiero si basa sul concetto che il governo non debba ridurre le disuguaglianze sociali in quanto “naturali”, arrivando a definire la giustizia sociale un concetto aberrante. Come ciliegina sulla torta, ha riconosciuto Gerusalemme come capitale d’Israele e sostiene fermamente Netanyahu. Inutile dire che sia uno dei principali supporter di Donald Trump ed Elon Musk. Se questa è la “rivoluzione culturale” tanto osannata da Meloni, io da cittadino italiano – e antifascista – mi vergogno non soltanto per l’accoglienza ricevuta nel nostro Paese, ma per il fatto che la nostra premier lo abbia omaggiato con la cittadinanza italiana. La stessa che la destra nega a un bambino nato e cresciuto nel nostro Paese da genitori stranieri, viene offerta in tempi record a un politico neofascista con impeti dittatoriali.
Questa non è di certo una novità per Atreju, visto che in passato ha ospitato personaggi del calibro di Viktor Orbàn, Elon Musk o Steve Bannon, ovvero gli alfieri del sovranismo allergici alla democrazia. In teoria tutto questo non viola alcuna legge. Fratelli d’Italia è un partito libero di organizzare i suoi eventi e di invitare chi vuole. Si può forse considerare un effetto collaterale della democrazia, uno spunto per tirare in ballo il paradosso della tolleranza di Karl Popper, ma di fatto non si può contestare l’esistenza stessa di Atreju, dal momento in cui abbiamo sdoganato i partiti di estrema destra. Proprio per questo forse mi inquietano di più i personaggi che si presentano ad Atreju da “esterni”. Milei e Orbàn sono nel loro habitat naturale, Enrico Mentana o Bianca Berlinguer no. Eppure vanno a moderare i dibattiti su quel palco. Sono liberi di farlo, ma è un processo che va avanti da troppi anni e che ha portato l’estrema destra a essere tollerata, inserita nel processo democratico pur non avendo i parametri necessari per entrarvi.
Ricordo quando lo stesso Mentana e Corrado Formigli accettarono persino l’invito di CasaPound nella loro sede (abusiva). All’epoca sostenevano che il confronto fosse necessario, ma a mio avviso è stato solo un modo per dare visibilità – e, in qualche modo, credibilità politica – a realtà che dovevano restare nella loro nicchia. Per Fratelli d’Italia il discorso non è tanto diverso: per decenni Ignazio La Russa è stato nella cultura pop il siciliano con la voce buffa imitato da Fiorello e non un neofascista collezionista di cimeli del Ventennio, e così l’intero partito è stato considerato da stampa e televisioni “di centrodestra”, mentre all’estero viene identificato da tutti i media “di estrema destra neofascista”. In tal modo è risultato meno pericoloso per l’opinione pubblica, i fascisti sono finiti nei salotti televisivi, li abbiamo accettati e umanizzati. Il risultato è l’estrema destra al governo e Atreju evento pop per grandi e piccini.
Partecipare come figura esterna è dunque lecito, ma il rischio di entrare in un rapporto di semi complicità con l’ambiente per arruffianarsi il pubblico è molto alto, soprattutto se si tratta di personaggi già tendenti alla paraculaggine. Per esempio, Giuseppe Conte ha esordito sul palco dicendo proprio di aspettarsi i fischi in quanto avversario politico, ma poi l’occasione di strizzare l’occhio all’estrema destra non è sfuggita nemmeno a lui. Alla semplice domanda di Mario Sechi “Lei è di sinistra?”, ha risposto: “Se sinistra significa combattere il governo attuale nel solo nome dell’antifascismo non ci sto. Se vuol dire accogliere tutti indiscriminatamente non ci sto. Se vuol dire preoccuparsi solo di chi abita nella Ztl non ci sto”. Ovvero la classica risposta da dare in pasto a un pubblico di destra – che infatti ha applaudito – confezionata con il loro linguaggio e i loro temi. Non ho dunque compreso il senso della sua presenza, l’utilità di salire su un palco per legittimare il fascio-party solo per lanciare frecciatine al PD e accaparrarsi qualche applauso nemico. A questo punto ha fatto bene Elly Schlein a non presentarsi direttamente.
Eppure c’ha pensato la stessa Giorgia Meloni a portare la segretaria del PD sul palcoscenico, durante la chiusura in pompa magna con la premier a parlare al suo popolo. Ha infatti dichiarato che Schlein “è presa da altre priorità, come i duetti rap e i balli sui calli allegorici del Gay Pride”. E giù di sfottò e risate del pubblico, perché la parola “gay” è ancora denigratoria nel 2024 in quegli ambienti. Ignoranza confermata anche dalla premier che non lo chiama semplicemente Pride, ovvero il suo nome, e che usa gli avversari per nascondere le proprie difficoltà. Assistere al suo comizio è stato surreale: ha parlato di una nazione che non esiste gonfiandosi il petto per risultati mai ottenuti. Non è persino mancata la sviolinata agli organizzatori di Gioventù Nazionale: “Sono fiera di voi e nessuna gogna costruita sull’errore del singolo spiando la gente dal buco della serratura vi toglie chi siete”. Cioè dei ragazzi che inneggiano al nazifascismo, registrazioni alla mano. È questo elemento a rendere Atreju un fascio-party che vuole ambire a diventare Sanremo. Possono esserci dibattiti di ogni tipo con moderatori democratici, ma l’evento è organizzato da chi cita Hitler, gli ospiti principali sono leader stranieri fascisti e il partito che coordina il tutto è il figlio dell’MSI.
Una corrente sempre più ampia a sinistra si basa su un semplice concetto: con i fascisti non si dialoga. Non voglio entrare nel merito, ognuno ha la propria idea più o meno radicale su questo argomento. Posso solo riformulare il pensiero e credere che l’errore sia stato semmai “normalizzare” i neofascisti. E dunque normalizzare l’odio e i loro tratti caratteristici. Il fascismo pop mantiene la stessa carica di intolleranza e autoritarismo anche dietro la patina di un filtro Instagram o del sorriso della trina Giorgia, “donna, madre e cristiana”. Ormai lo sbaglio è stato fatto e li abbiamo portati al potere. Evitiamo almeno di andare ai loro eventi fingendo che siano dei moderati di destra. Non lo sono e non lo saranno mai, e senza questa normalizzazione i loro fascio-party li organizzerebbero ancora negli scantinati delle vecchie sedi missine circondati da busti del Duce.
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