Dal 7 ottobre, giorno degli attacchi di Hamas a Israele, comunicare è diventato un esercizio di funambolismo. Bisogna stare attenti a cosa dire e a come dirlo, perché ogni frase può sembrare nascondere un sottotesto anche quando questo non è presente. Ho osato dire che decapitare bambini e ammazzare ragazzi durante un rave – ovvero quello che ha fatto Hamas – è terrorismo e non resistenza, e sono stato accusato di essere al soldo di Netanyahu. Ho ricordato che Israele dal 1948 non rispetta le risoluzioni dell’ONU, ha cacciato i palestinesi dalle proprie case e adesso li sta massacrando a Gaza, e sono stato accusato di antisemitismo. Quest’ultima parola risuona negli editoriali, nelle parole dei politici, sui social. Essendo cresciuto con il mito di mio nonno, partigiano che durante la seconda guerra mondiale ha combattuto contro i nazisti e i fascisti che deportavano e uccidevano gli ebrei, l’indignazione di fronte a una tale accusa non può che essere cocente. Il paradosso, però, è stato raggiunto quando il termine in questione è stato usato impropriamente da alcuni politici italiani come risposta alle critiche al governo di Netanyahu. Mai avrei pensato di arrivare a questo scenario da romanzo distopico, ma a pretendere di dare lezioni su come contrastare l’antisemitismo e a definire antisemiti individui che non lo sono affatto è un partito neofascista con la fiamma tricolore sul simbolo.
Giorgia Meloni e Matteo Salvini da settimane parlano di antisemitismo con una retorica e una mistificazione del tutto inappropriate. Se per il leghista è una questione di alleanze politiche, e dunque l’estrema destra di Netanyahu va difesa a prescindere, per Meloni il discorso è estremamente più ampio. Essendo a tutti gli effetti l’erede politica di Giorgio Almirante, si crea un cortocircuito che può essere studiato soltanto andando a ritroso con la Storia. Prima delle elezioni nazionali dello scorso anno, la senatrice a vita Liliana Segre chiese a Meloni di togliere la fiamma tricolore dal simbolo di Fratelli d’Italia. Non fu ascoltata. Meloni e i suoi compagni di partito non hanno mai rinnegato quel simbolo appartenente al Movimento Sociale Italiano. Ignazio La Russa, Presidente del Senato, ha celebrato la nascita dell’MSI causando le ire della comunità ebraica italiana, e la stessa premier ha definito Almirante un “uomo coraggioso, onesto, un grande politico”, chiudendo l’omaggio con la frase: “La destra italiana non dimentica”.
Ciò che Meloni e La Russa omettono, però, sono dettagli di non poco conto: la fiamma dell’MSI rappresenta infatti la rinascita dello spirito fascista, il trapezio nel simbolo la tomba di Mussolini, e Almirante è stato un promulgatore delle leggi razziali, nonché un membro della Repubblica Sociale Italiana che ha firmato personalmente l’ordinanza di una fucilazione di massa. Se, usando le parole di Meloni, la destra non dimentica, per fortuna non l’ha fatto neanche la comunità ebraica. Anche qui c’è però da fare un distinguo: comunità ebraica non è sinonimo di Israele. La spiegazione ce la offre ancora una volta l’MSI. Tenuto fuori dalla scrittura della Costituzione antifascista, il partito di Almirante è tornato subito dopo tra gli scranni del Parlamento, portando a bordo figure che fino a poco tempo prima avevano ruoli operativi sotto il regime fascista o provenivano dalla seguente RSI.
Dopo la vergogna più grande dell’umanità, ovvero l’Olocausto, a soli tre anni dalla fine della guerra i fascisti di un tempo, quelli che torturavano gli ebrei e li mandavano nei campi di concentramento, tornarono attivamente sulla scena politica. E, a sorpresa, l’MSI – dopo qualche titubanza iniziale – divenne uno dei principali sostenitori dello Stato di Israele. Questo nonostante diverse anime del partito, tra cui quella capeggiata da Pino Rauti, continuassero a nutrirsi di antisemitismo seguendo le teorie del filosofo Julius Evola, basate sul razzismo spiritualistico e l’esistenza di razze superiori e inferiori. Gli ebrei venivano nuovamente attaccati sulle principali riviste della destra spiritualista, la stessa che dopo il Congresso dell’MSI del 1956 decise di lasciare il partito fondando Ordine Nuovo. Quando però, nel 1969, Almirante venne rieletto segretario, come prima mossa fece rientrare nel partito la corrente spiritualista di Rauti, pur mantenendo l’appoggio a Israele.
Il motivo di questa doppia veste è semplice, e sta nel rapporto tra l’MSI e la CIA. Gli Stati Uniti già nel 1948 avevano agito per indirizzare le elezioni italiane dalla parte della DC per non far vincere i comunisti. Con il passare degli anni, il maccartismo americano prese piede anche nel nostro Paese e Almirante vedeva in Israele uno scudo contro certi paesi arabi che invece erano sostenuti dalla sinistra italiana. Inoltre, l’atlantismo dell’MSI non aveva soltanto radici ideologiche. Come confermato durante un’intervista a Giovanni Minoli da Giulio Caradonna, figura di rilievo dell’MSI, gli Stati Uniti finanziarono il partito di Almirante per il timore che la DC si avvicinasse troppo a certe posizioni socialiste, soprattutto quando iniziarono a prefigurarsi le trattative per il compromesso storico. Ma già da prima l’MSI ricevette finanziamenti, come quello di 600mila dollari dato allo stesso Almirante da Vito Miceli, capo dei servizi segreti militari, all’insaputa del governo italiano. Fu un continuo scambio di favori, come quando i missini Francesco Servello e Raffaele Delfino volarono nel 1968 negli USA per fare campagna elettorale tra gli italoamericani in favore di Nixon. Quindi il sostegno a Israele fu una convenienza politica ed economica, e non placò diversi atti antisemiti che avvennero comunque in quegli anni.
Nel 1958, alcuni militanti dell’MSI provenienti da un comizio dell’allora segretario Arturo Michelini si radunarono davanti alla sinagoga di Roma e la danneggiarono. Quattro anni dopo, dei giovani missini tentarono un assalto al ghetto ebraico di Roma, cercando di replicare l’orrendo rastrellamento del 1943. In generale, in quegli anni, molti movimenti giovanili dell’MSI, come il movimento universitario FUAN, raccoglievano ideologie antisemite provenienti da Evola e da Ordine Nuovo per trasformarle in azioni vandaliche, tra manifestazioni in piazza con slogan contro gli ebrei, profanazioni di tombe dei cimiteri israelitici e svastiche dipinte davanti ad abitazioni di italiani di origine ebraica. Il sostegno dell’estrema destra a Israele non garantiva dunque una distanza dall’antisemitismo, anche perché le politiche attuate da Israele non coincidevano, e non coincidono nemmeno oggi, in toto con il pensiero della comunità ebraica. Uno dei gesti simbolici più importanti di questi giorni è proprio il sit-in alla stazione Grand Central di New York da parte degli ebrei statunitensi che hanno chiesto al governo israeliano di interrompere i massacri a Gaza.
Eppure nessuno si sognerebbe di definire antisemiti gli ebrei di New York, come era inimmaginabile associare all’antisemitismo la figura italiana probabilmente più rilevante nel racconto della Shoah: Primo Levi. Nel 1982, in seguito agli attacchi di Israele in Libano contro rifugiati palestinesi e forze musulmane dell’area, Levi rilasciò diverse interviste e scrisse articoli in cui condannò fermamente il governo israeliano. Definì Israele “sempre meno Terra Santa, sempre più Paese militare”, parlò di “orrore per la rappresaglia sbilanciata che assume forme e dimensione barbariche” e chiese il ritiro immediato delle truppe. Esattamente come oggi viene chiesto a gran voce a Israele di fermare le stragi a Gaza. Solo che adesso sembra lesa maestà o chissà quale germe in procinto di scagliarsi contro la comunità ebraica. Non è così. L’antisemitismo – al pari dell’islamofobia – è un male che dovrebbe sempre essere estirpato sul nascere attraverso l’educazione, lo studio e preziose testimonianze raccolte nel tempo. Se chi giustifica il terrorismo di Hamas è complice di un fondamentalismo imbevuto di sangue; allo stesso tempo, chi critica le azioni del governo Israeliano non vuole tornare certo a un revival dei tempi oscuri contro gli ebrei, ma protestare contro un esecutivo di estrema destra che sta facendo stragi di civili appoggiandosi al lasciapassare di gran parte dell’Occidente.
È quindi doveroso che anche la destra italiana faccia i conti con il proprio passato per poter muoversi nel presente senza ambiguità. Ottimo che Meloni condanni l’orrore dell’antisemitismo, ma facendolo sotto il simbolo, il nome e il retaggio di Almirante suona come una stonatura storica. È la stessa confusione ideologica che, nel 2020, portò il comune di Verona a voler dedicare una via ad Almirante e a proporre la cittadinanza onoraria a Liliana Segre. Lei, in modo composto, rispose: “La mia cittadinanza onoraria è incompatibile con la via Almirante”. Incompatibile, come le parole di Meloni sulla comunità ebraica e sullo stesso Almirante, il suo padrino politico. Incompatibile, come lo sarebbe il poster di Putin nella stanza di un cittadino di Mariupol. È invece compatibile la critica a Israele e la condanna verso qualsiasi forma di antisemitismo, nonostante la narrazione corrente sembri portare più all’assolutismo delle due fazioni, un dualismo esasperato che non contempla una visione tridimensionale di un conflitto. Parafrasando il Berlinguer di “né con gli USA, né con Mosca”, non è incoerente oggi pronunciare “né con Netanyahu, né con Hamas”, ma è anzi una presa di coscienza di fronte a migliaia di civili morti in nome di un Dio, di un confine o del pezzo di terra “sbagliato” in cui si è nati.