Un accordo di governo tra Pd e M5S fino a qualche settimana fa sembrava impossibile. Forse è davvero impossibile, ma gli sviluppi degli ultimi giorni hanno dimostrato che il segreto è trovare una combinazione che non scontenti troppo nessuno. Almeno fino al primo scontro sul programma di governo. Ma la base? Prima o poi qualcuno dovrà spiegare ai milioni di elettori Cinque Stelle che il Pd non è più il partito di Bibbiano. Prima o poi qualcuno dovrà convincere gli elettori del Pd che il ministro Di Maio non è più “er bibbitaro“, e che Rousseau in fin dei conti è una semplice piattaforma di consultazione interna, con molte falle nella sicurezza e zone d’ombra, ma del tutto legittima. Prima o poi, due popoli aizzati da anni l’uno contro l’altro su media e social network dovranno seppellire l’ascia di guerra.
Ammesso che sia possibile, chissà se ne vale la pena. Pd e M5S potrebbero riallontanarsi tanto velocemente quanto si sono avvicinati. A farli convergere per un istante sarebbero mere considerazioni tattiche, in un tentativo più o meno disperato di resistere a un Salvini trionfante nei sondaggi. Ecco l’unica cosa che avrebbero in comune, gli elettori dem e grillini: il nemico. In politica è normale trovarsi a letto col nemico del proprio nemico, ma non significa che devi andarci d’accordo tutto il giorno. Non resta che stringere i denti e ricordare che Di Maio-Zingaretti è meno peggio di Di Maio-Salvini. Con queste premesse, è chiaro che l’alleanza potrà durare fino a un calo di Salvini nei sondaggi. Oppure democratici e cinquestelle potrebbero approfittare di questo strano flirt estivo per rimettersi in discussione. Per qualche anno si sono odiati e disprezzati, come se fosse la cosa più naturale del mondo, ma non è sempre stato così.
Quella tra elettori del M5S e del Pd non è la tipica contrapposizione ideologica che separa – per fare un esempio – fascisti e comunisti. Non è nemmeno una nuova forma di lotta di classe: i bacini sociali dei due elettorati sono contigui, forse sono gli stessi. Anche l’interpretazione che va per la maggiore (Pd elitista contro M5S populista) convince fino a un certo punto: il Pd ha molto spesso assorbito spinte populiste (specie nella fase rottamatrice della segreteria Renzi), mentre il M5S sembra essere il partito più votato dai laureati. Fingiamo di essere appena arrivati in Italia da un altro pianeta: di fronte a due partiti che si odiano e si spartiscono gli stessi serbatoi elettorali, non potremmo che concludere che si tratta del risultato di una scissione. Non abbiamo mai pensato di analizzarla da questo punto di vista, ma forse potremmo.
Se non è facile trovare una data per sancire l’inizio dell’odio tra i due soggetti politici, è certo che già nell’estate del 2007 c’era una forte diffidenza reciproca. Nell’ottobre di quell’anno i leader di Margherita e Ds hanno deciso di fondersi in un unico partito, con Walter Veltroni come segretario, eletto durante le prime primarie aperte ai cittadini della storia repubblicana. Fino a quel momento lo schema dei Democratici di sinistra era stato quello dalemiano di coalizzarsi con forze più centriste (le schegge dell’esplosione della vecchia Dc), cercando di arginare Berlusconi. Lo schema era sembrato efficace con l’Ulivo di Prodi nel 1996, ma molto meno con l’Unione di dieci anni dopo. Veltroni, dopo dieci anni passati a convincere gli elettori di sinistra che bisognava dialogare con il centro, decise di far diventare il Pd il centro, considerato tanto dai veltroniani quanto dai dalemiani il territorio da conquistare per assicurarsi le elezioni. Sia D’Alema che Veltroni erano convinti che il futuro della socialdemocrazia fosse una liberaldemocrazia allineata alle direttive di Maastricht, mitigata da alcuni ammortizzatori sociali. Il fatto che la classe media cominciasse a impoverirsi non destava molte preoccupazioni: l’eventualità che la frustrazione degli elettori li portasse a cercare formazioni politiche più estreme sembrava fantascienza. La battaglia si sarebbe vinta al centro, ma né D’Alema né Veltroni ci riuscirono mai.
Oggi forse si è chiarito il perché: il tanto corteggiato centro in realtà non esisteva, o comunque aveva numeri molto più ridotti da quelli immaginati dalla dirigenza del Pd. Tutt’altro che moderati erano gli elettori del sedicente centrodestra: tutt’altro che moderati erano i toni con cui Berlusconi li aveva attirati e sedotti, denunciando un pericolo “rosso” incarnato persino nelle forme rassicuranti e democristiane di Romano Prodi. Berlusconi non si poteva sconfiggere con la moderazione, ma in pochi sembravano averlo capito. O forse no.
Lo aveva capito Marco Travaglio, per esempio, che sull’antiberlusconismo aveva già costruito una carriera. Lo aveva capito Antonio Di Pietro, che stava portando il suo piccolo partito giustizialista a conduzione famigliare a sfiorare il 5%. Lo avevano capito Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, i due giornalisti del Corriere della Sera autori del caso editoriale del 2007, La Casta, in cui la classe politica italiana veniva accusata di una voracità e avidità insaziabile. E lo aveva capito Beppe Grillo, che nel settembre di quell’anno celebrò a Bologna il suo primo V Day. Il pretesto era una raccolta firme per una legge di iniziativa popolare che conteneva già uno dei cardini del futuro M5S: il tetto massimo di due legislature per i parlamentari.
Alla fine dell’estate 2007 la situazione era chiara a chiunque la volesse capire: gli elettori non stavano cercando contenuti moderati. Da tredici anni Berlusconi catalizzava l’opinione pubblica, polarizzandola tra fan e haters. Se tra i fan cominciava a serpeggiare la delusione per un nuovo miracolo italiano mai realizzato, la rabbia accumulata degli haters ormai si concentrava su nuovi bersagli: non più soltanto Berlusconi, ma anche tutti i politici che non erano riusciti a batterlo, e per molta opinione pubblica neanche ci avevano provato. Né D’Alema né Prodi, infatti, erano riusciti a far approvare una legge sul conflitto d’interessi. Veltroni aveva anche deciso di non nominare più Berlusconi durante i comizi elettorali, per prendere le distanze da un antiberlusconismo sempre più viscerale che i vertici del Pd sapevano di non riuscire più a controllare.
La scissione tra Pd e il futuro M5S avvenne in quel momento, anche se in molti non se ne accorsero. Eppure la folla accorsa a Bologna per firmare le proposte di legge di Grillo era formata in gran parte da elettori di centrosinistra, sempre meno interessati ai discorsi moderati di un Veltroni alla vana ricerca di un Centro. Nel 2008 Veltroni prese comunque 15 milioni di voti (alla Camera), dato mai più raggiunto dal Pd, ma inferiore di 4 milioni al risultato dell’Unione di Prodi di due anni prima. In autunno Veltroni si dimise dalla carica di segretario e Beppe Grillo chiese di partecipare alle nuove primarie. Era soltanto una provocazione, dato che stava già iniziando a presentare liste locali con le cinque stelle nel simbolo.
In quell’occasione Piero Fassino pronunciò quella famigerata frase: “Il Pd non è un taxi su cui chiunque può salire. Se Grillo vuole fare politica fondi un partito. Metta in piedi un’organizzazione, si presenti alle elezioni e vediamo quanti voti prende”. Nel 2013 ne ha presi più di otto milioni, superando di misura il Pd di Pierluigi Bersani: la somma dei voti dei due partiti continua a rimanere sostanzialmente stabile tra i sedici e i diciassette milioni, poco più di quanto ne raccolse il Pd di Veltroni nel 2008. Il partito nato per conquistare il centro moderato lo ha completamente perso. Gli elettori, anche di centrosinistra, erano già attratti da un risentimento che abbiamo chiamato prima antipolitica e dopo populismo, che Grillo ha cavalcato fino a esserne quasi travolto. Sappiamo che è un magma in cui l’antiberlusconismo degli indignati da Berlusconi si è mischiato a quello dei delusi da Berlusconi, dove si riuniscono le istanze che una volta erano tipiche della sinistra (l’ecologismo, la questione morale) e veleni di estrema destra. Con questo magma il Pd ora deve costruire un’alternativa al sovranismo di Salvini e dei suoi sostenitori. Forse è impossibile, probabilmente è troppo tardi, ma purtroppo non esistono alternative. La vera sfida adesso sarà convincere di questo anche i due elettorati.
Foto in copertina di Antonio Masiello