Che la Lega e il Movimento 5 Stelle fossero destinati a una convergenza era un fatto più che prevedibile. Molto simili le istanze populiste e di destra dei due partiti, pressoché omogenea la provenienza sociale dello zoccolo duro di entrambi gli elettorati, sovrapponibili le due propagande, entrambe caratterizzate da una diffusione infestante di contenuti semplificati (e talvolta di fake news) resi virali attraverso un utilizzo spregiudicato dei social, comuni gli intenti anti-establishment. L’alleanza che ha portato alla nascita del Governo Conte – gradita alla maggioranza schiacciante degli elettori dei due partiti – ha però dimostrato fin dall’inizio l’egemonia di uno dei due protagonisti dell’accordo: Matteo Salvini. È lui a dettare l’agenda, è lui a guidare le scelte chiave. In sostanza, è la sua la voce più forte di questo momento politico, il fulcro intorno al quale si muovono tutti gli altri attori della maggioranza e dell’opposizione. Non poteva non essere così: la svolta lepenista imposta dall’ex-leoncavallino che fondò i “Comunisti Padani” è oggi l’offerta politica più chiara e riconoscibile sulla piazza.
Già dal lungo e movimentato dopo-voto (il più lungo della storia della repubblica) è apparsa evidente la differenza di passo tra il capo del Carroccio e Luigi Di Maio, un leader solo sulla carta, politicamente impalpabile e soprattutto vincolato alle decisioni della società che gestisce il Movimento 5 Stelle come tutti gli eletti grillini. Salvini ha saputo gestire due trattative molto difficili: quella con lo schieramento di centrodestra, in cui si è imposto come leader vincendo alle urne il derby con Forza Italia; e quella con il partito di maggioranza relativa. Nel primo caso ha ottenuto il non scontato “passo di lato” di Silvio Berlusconi, probabilmente rassicurato da promesse di non belligeranza del governo nei confronti delle sue aziende e da una serie di nomine strategiche sotto traccia. Nel secondo, ha smontato con uno snervante gioco al rialzo tutte le principali pretese della controparte, a cominciare dalle aspirazioni personali di Luigi Di Maio, che ha sognato Palazzo Chigi fino al passaggio della campanella tra Gentiloni e Conte. A Governo fatto (ministri e sottosegretari), si può tranquillamente dire che guardando ai ruoli chiave e alla quantità delle cariche che si sono divisi i due partiti ex-contendenti, il peso specifico della Lega di Matteo Salvini va ben oltre il gap del 4 marzo (17,4% – 32,7%), ma soprattutto che il Carroccio ha tenuto per sé quelle posizioni che possono consentirgli una crescita di consensi nel breve-medio termine, lasciando agli alleati gli argomenti più scivolosi, a cominciare dal super-ministero del Lavoro e dello Sviluppo Economico che il “capo politico” del M5S ha voluto per sé, malgrado il suo scarno curriculum.
Tuttavia, non è solo una questione di nomi e di cariche. Fin dall’inizio, infatti, la personalità e l’ostentato decisionismo di Salvini ha nettamente oscurato la figura di Luigi Di Maio e soprattutto di Giuseppe Conte, un premier invisibile che da subito ha palesato la sua funzione di mero passacarte. Imbarazzante l’involontario siparietto durante il primo discorso tenuto alla Camera dei Deputati, con quegli appunti persi e quel “Posso dire…?”, “No!”, che ha suscitato tanta ironia. Inquietante quel braccio di Rocco Casalino che lo porta via mentre conversa con i giornalisti durante una pausa del G7. Al netto di un “contratto di governo” che molti giudicano costoso e irrealizzabile, Salvini è riuscito a dettare le prime battute dell’esecutivo con un’operazione mediatica a costo zero: la chiusura dei porti e il non attracco della nave Aquarius. Una mossa spregiudicata, fatta a urne aperte e utilizzata come spot elettorale per mostrare ai suoi elettori, e non solo, il ruolo egemonico che vorrà giocare da qui ai prossimi mesi. Poco importa che due giorni dopo, a Catania, sia attraccata un’altra nave con duecento migranti in più di quella della flotta di Medici Senza Frontiere respinta dall’Italia, ormai nei comuni si era già votato e Salvini era già l’idolo indiscusso dei tanti che pensano che lo stato di disagio di vaste fette della popolazione dipenda dai barconi carichi di persone che fuggono dalla fame e dalle guerre. Ma questo è un pensiero ciclico, basti ricordare i famigerati “gommoni dall’Albania” degli anni Novanta.
L’ultimo voto amministrativo ha evidenziato un sensibile calo di consenso del Movimento 5 Stelle (persino in Sicilia, dove il 4 marzo i grillini avevano registrato un plebiscito) e una crescita della Lega di Salvini. E se era prevedibile che un pezzo di elettorato di sinistra in fuga dal Partito Democratico si sarebbe presto pentito della scelta, quello che sta accadendo è che il movimento fondato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio perde molti consensi anche a destra, a favore dell’alleato di governo. Va ricordato che il Movimento 5 Stelle, come tutti i partiti populisti, attecchisce molto più su un elettorato di destra, un elettorato che si lascia affascinare dai leader carismatici e risoluti, più che dai valori che incarnano. Matteo Salvini ha trovato una forte sintonia con la base pentastellata e ha iniziato a cannibalizzare il consenso che con tanta fatica la Casaleggio Associati era riuscita a intercettare, pescando nell’immenso bacino dei berlusconiani pentiti. Il risultato, a lungo andare, potrebbe essere l’incoronazione del capo del Carroccio a leader incontrastato della destra italiana.
C’è infine una questione di sostanza. Pur avendo raccolto molti più voti dei leghisti, i grillini sono meno esperti e più esposti a fallimenti. Ne sanno qualcosa a Roma, dove in due anni Virginia Raggi ha velocemente dilapidato la marea di voti che l’avevano portata in Campidoglio, come dimostrano le recenti elezioni nei due municipi dove le giunte pentastellate erano prematuramente naufragate, e dove i candidati grillini non sono arrivati neanche ai ballottaggi. Il personale politico del Carroccio, formatosi negli anni di Bossi, è assai più preparato e “navigato” di quello grillino e la differenza si noterà molto man mano che il nuovo governo inizierà a varare i provvedimenti, aprendo confronti e contrattazioni con soggetti più o meno influenti del mondo economico, associativo e sindacale.
Matteo Salvini, dunque, è la nuova “prima donna” della politica italiana, un leader forte in un paese debole e sempre più isolato sulla scena europea. La sua ascesa si basa su messaggi semplificati e sulle pulsioni più basse che si celano in vaste fasce della popolazione. Ai duri e puri del suo elettorato importano relativamente questioni astratte come l’onestà tanto decantata dai grillini – anche se non sempre messa in pratica – e non è un caso che, malgrado le vicende giudiziarie che hanno coinvolto esponenti del Carroccio e i rapporti opachi con la Russia di Putin, i consensi siano cresciuti vertiginosamente. In fondo, lo slogan più in voga di questi tempi è “prima gli italiani”. Cosa debbano fare una volta arrivati primi, però, sembra essere una questione di poco conto.